In questi giorni ricomincia il tennis giocato e, visto che si riprende dall’Australia, per la maggior parte di noi vuol dire tennis seguito non dal vivo, ma in TV. E se i tennisti viaggiano fisicamente da un continente all’altro, i telespettatori lo fanno virtualmente, sperimentando di volta in volta le differenti regie nel mondo: in ogni nazione la televisione racconta il tennis con accenti leggermente differenti. Ho provato ad analizzare alcuni casi che mi sembrano particolarmente significativi.
1. La regia inglese, ovvero il tennis come cerimonia
Parlare di tennis inglese significa naturalmente parlare soprattutto di Wimbledon.
Personalmente sono convinto che l’idea che abbiamo del torneo londinese debba moltissimo alla televisione, e al suo modo di comunicare l’evento. Se ancora oggi percepiamo che il prestigio superiore di Wimbledon deriva dalla straordinaria tradizione e dall’atteggiamento di rispetto verso il lascito della storia, molto dipende dalle scelte televisive, che non hanno mai tradito l’eredità espressiva ricevuta dal passato. Questo non vuol dire che il torneo sia trasmesso oggi esattamente come trent’anni fa (basta pensare alla copertura crescente dei campi secondari), ma ciò che a mio avviso ha contraddistinto la logica comunicativa inglese è che i contenuti “in più” forniti negli ultimi anni, sono stati elaborati offrendo novità prima e dopo il match, lasciando invece quasi inalterato lo spazio della partita vera e propria.
Pensiamo ad esempio alla finale; da qualche tempo i canali ci mostrano il dietro le quinte del vincitore al termine della premiazione: il percorso verso gli spogliatoi con le congratulazioni dei grandi giocatori del passato, l’addetto che aggiunge il nome a lettere d’oro sul tabellone, l’affaccio dal balcone con il trofeo in mano per salutare i tifosi in attesa, e altro ancora. Sono contenuti recenti, ma le nuove riprese dall’interno della clubhouse, tra legni di quercia e finiture in ottone, sono scelte in modo da rafforzare l’immagine di solida continuità con il passato.
Durante il match i registi non hanno gran che modificato il modo di riprendere il gioco: comanda sempre la telecamera collocata sul lato opposto al royal box, e la partita è raccontata da lì, con pochi stacchi e senza troppi svolazzi e divagazioni “creative”.
Quando comincia la partita, tutto il resto passa in secondo piano, e l’incontro assume la dimensione del rito. Anche l’obbligo dell’abito bianco indica che occorre vestirsi con il decoro che una cerimonia richiede. Il segno che la cerimonia sta iniziando è il silenzio dei telecronisti inglesi al momento del “Ready – Play” pronunciato dal giudice di sedia, mentre la telecamera principale effettua uno zoom che esclude progressivamente le tribune dall’inquadratura, per concentrarsi esclusivamente sul campo.
Ecco: la zoomata sul “Ready – Play” con lo stadio e i telecronisti che si ammutoliscono, e il prato che occupa integralmente i nostri schermi è un momento di straordinaria forza espressiva. E i telespettatori hanno la sensazione che anche una partita di tennis possa diventare qualcosa di vicino al sacro. È un peccato che questa scelta registica non sia sempre rispettata dai commentatori delle altre nazioni, che sembrano trascurare quanto sia importante sul piano simbolico quel silenzio all’inizio del match.
2. Gli australiani e la gestione della luce
Il tennis ATP e WTA negli ultimi anni viene soprattutto praticato all’aperto. E anche se la quasi totalità delle immagini rimane circoscritta all’ambito dello stadio, un elemento fondamentale differenzia comunque gli scenari alle diverse latitudini: la luce. La luce di Londra non è quella di New York, né tanto meno quella di Melbourne. L’estate australiana è un fenomeno tanto prepotente da reclamare un ruolo importante nelle trasmissioni, di cui gli australiani sono sicuramente consapevoli.
Il sole esalta i colori, e le scelte compiute a Melbourne negli ultimi tempi hanno valorizzato la situazione, a partire dal cambio della superficie di gioco (dopo il passaggio dal Rebound Ace al Plexicushion) che ha reso lo stadio molto più telegenico: non più un verde piatto e spento, ora c’è un campo blu di due tonalità che rivaleggiano con quelle del cielo. Ma una luce così intensa è un’arma a doppio taglio: tanto rende brillanti le inquadrature, conferendo allo scenario i toni sgargianti di un’opera pop, tanto può mandarle in crisi sotto forma di ombre inopportune.
Gli australiani nel campo centrale di Melbourne hanno dimostrato di essere in grado di gestire la luce al meglio, grazie a un impianto in cui il tetto retrattile viene modulato in modo da avere sempre una piccola porzione in ombra sul fondo degli out, rifugio per i tennisti nei momenti di maggior calore, senza che però crei fastidiosi contrasti sia per i protagonisti in campo che per i telespettatori.
Che l’ombra possa diventare un nemico terribile per il gioco e la TV lo sperimentiamo in altri stadi, in cui le riprese vengono fortemente penalizzate proprio da una illuminazione inadeguata. E se, tutto sommato questi problemi si possono accettare sui campi secondari, a volte costretti dalla posizione sfavorevole ad orientamenti non ortodossi, diventa meno ammissibile che penalizzi il campo principale, di qualsiasi località si tratti. Ricordo un paio di situazioni particolarmente infelici: l’inserto di Baku, o i ritagli di Pechino:
Al campo centrale di Melbourne (a parte l’inevitabile fase del tramonto) questo non succede, a dimostrazione che in Australia la cultura per il tennis è diffusa in tutte le componenti che concorrono ad organizzare un grande evento: a partire dai progettisti degli impianti sino a chi posiziona le telecamere all’interno dello stadio. Evidentemente tanti anni di tennis ad alto livello non sono passati invano.
3. Gli americani e la scoperta del suono
Non è semplice sintetizzare l’approccio verso il tennis da parte degli americani: ma forse il tratto comune che si può individuare è la volontà, tutto sommato tipica della mentalità stelle e strisce, di aumentare lo spettacolo il più possibile. Come se l’offerta non fosse mai abbastanza, e andasse preso in considerazione qualsiasi elemento per provare ad aggiungere ancora qualcosa al normale tennis giocato.
Gli esiti possono avere pro e contro: da una parte è stimolante il tentativo di non lasciare tempi morti per cercare di comunicare sempre di più; dall’altra a volte questo atteggiamento rischia di far provare allo spettatore una sensazione di bulimia; personalmente a volte mi verrebbe da dire: “basta vitamine, basta calorie, lasciatemi qualche minuto a pane e acqua”.
Non ci si accontenta di replay e statistiche: durante i cambi di campo parte la musica, e anche il pubblico è chiamato a partecipare attivamente, a colpi di kiss-cam o soluzioni simili. Agli ultimi US Open sono state sperimentate anche le interviste ai giocatori durante il match; e la prima protagonista è stata, quasi inevitabilmente, Coco Vandeweghe, classico prototipo di sportiva americana, erede com’è di una famiglia di famosi atleti USA.
C’è un aspetto particolarmente interessante di questo atteggiamento verso il tennis: il rilievo dato alla parte sonora. Gli americani probabilmente sono stati i primi a proporre il tennis avendo la massima cura verso tutti i tipi di suoni che il match produce; in particolare il dettaglio del rumore dello scambio.
Sotto questo aspetto gli inglesi hanno un handicap, visto che l’erba attutisce i rumori, e giocando sull’erba bisogna fare l’abitudine a interpretare le parabole senza il suono del rimbalzo della palla. Ma sulle altre superfici non è così: il suono del rimbalzo di un colpo slice, ad esempio, è diverso da quello prodotto da un colpo in topspin; e così quando lo swisshhh di uno slice è particolarmente lungo, ci si deve aspettare una palla estremamente bassa e sfuggente. Cemento e terra battuta restituiscono quindi informazioni utili ad interpretare il gioco.
Di solito questa componente del tennis è negata agli spettatori televisivi: rimane un privilegio di chi è seduto nelle prime file dello stadio e soprattutto dei giocatori. Il suono del rimbalzo è quindi un elemento dello scambio quasi segreto, ed è come il respiro delle persone: costante e presente, ma che si può percepire solo stando estremamente vicini, in una dimensione intima. Ecco, si può dire che nei momenti più fortunati delle partite, quando l’ambiente lo consente, gli americani riescono a farci sentire il respiro del tennis: lo scambio nel più profondo dei suoi dettagli sonori, rimbalzi inclusi.
Questa impostazione ha fatalmente delle controindicazioni: con il suono tanto amplificato crescono i rumori di fondo, e dunque tutto quello che accade nell’ambiente circostante corre il rischio di entrare a far parte della trasmissione. Nel caso di Flushing Meadows innanzitutto il rumore degli aerei che fanno rotta al vicino aeroporto La Guardia. I maggiori disagi si creano nei campi secondari, con trasmissioni spesso disturbate dagli avvenimenti (annunci, musica, applausi) provenienti dal resto dell’impianto; e non solo agli US Open: a Cincinnati, ad esempio, è un problema che si sente parecchio.
4. Il tennis mondano di Parigi
Ultimo Major, quello francese. Per quanto riguarda Roland Garros inizio subito con il mio parere: sul piano televisivo secondo me è di gran lunga lo Slam peggiore. Personalmente non amo molto nemmeno lo scenario del campo centrale, a cui pure si deve riconoscere la dignità architettonica del suo storico calcestruzzo a vista, che ci ricorda che la Francia è stata la patria degli Hennebique e dei Perret. Ma questi sono aspetti del tutto marginali di fronte al vero problema degli Open di Francia: le scelte registiche.
Sintetizzare una ripresa-tipo di un incontro sul campo centrale è piuttosto facile. Dopo i primi game di riscaldamento, il regista, come i giocatori in campo, prende il ritmo: inquadratura del primo quindici e stacco sul primo piano di un personaggio famoso seduto in tribuna. Un altro paio di quindici e secondo stacco su un altro personaggio famoso seduto in tribuna. Altro paio di quindici e nuovo stacco su un terzo personaggio famoso seduto in tribuna.
Per i non-francesi, meno esperti del mondo dei vip della Senna, la sensazione è quella di sfogliare una rivista di gossip, popolata di figure che sì, forse conosciamo di vista, ma che poi difficilmente sappiamo associare ad un ruolo vero e proprio: attore? cantante? politico? marito o moglie di? sportivo? Ci vorrebbe l’Alfonso Signorini di Francia per tenerci aggiornati e riconoscere tutti. In questo carosello di primi piani, anche i giocatori del passato diventano meno riconoscibili, diluiti nel mare di soggetti (ig)noti.
Il problema di questa impostazione, quello più grave, è che in questo modo la partita di tennis viene trasformata in un ripetitivo ping pong fra campo e tribuna; la regia non abbandona mai lo schema rendendolo monotono e noioso. E se per caso è esaurita la scorta di spettatori con un minimo di fama, si insiste con gli stacchi sul pubblico utilizzando come soggetto il bambino che mangia il gelato sbrodolandosi, o la coppia straniera vestita in modo stravagante, o i militari in divisa da parata, o le belle ragazze con gli occhiali da sole come cerchietto, o il nonno che si è addormentato, etc etc.
L’andirivieni fra campo e tribuna infarcisce la partita di facce, che finiscono per rendere il match una indigestione di ritratti. E tutto questo è un gran peccato, perché la terra battuta ha una sua specificità di gioco, che potrebbe consentire approfondimenti espressivi interessanti.
5. Lo spreco di mezzi di Stoccarda
Ma Parigi non è certo il punto più basso che può capitare a un telespettatore durante l’anno. A mio parere il primato di evento peggio ripreso spetta al Premier WTA di Stoccarda, torneo in cui da diversi anni le partite sono penalizzate da una regia senza senso della misura.
Dirò una banalità, ma di fronte a certi casi sembra necessario tornare ai rudimenti della questione: un match di tennis è ripreso in diretta, senza che si sappia cosa sta per accadere; dunque non ci può essere una sceneggiatura in base alla quale sapere in anticipo che uno scambio merita punti di ripresa particolari: per questo una partita è trasmessa facendo affidamento su una camera principale, con la migliore visuale di insieme possibile. Le altre telecamere servono per arricchire il racconto, e sono collocate in posizioni ritenute significative per offrire punti di vista migliori in particolari momenti del match (sul movimento del servizio, durante le pause per mostrare gli allenatori, per replay da angolature differenti, etc etc).
Anche a Stoccarda alcune telecamere sono collocate in posizioni ritenute significative; il problema però è che vengono impiegate come sostitute della camera principale. E così capita di dover assistere ad interi scambi ripresi dalla cima delle tribune, oppure, ancora più frequentemente, con la telecamera posta a filo terreno, all’altezza delle scarpe delle giocatrici.
La regia di Stoccarda non si fa intimorire da nessuna situazione importante: ricordo interi set point ripresi dalla famigerata telecamera “rasoterra”: posizione da cui non si capisce assolutamente nulla, e che mette anche i telecronisti (che ormai seguono le partite dallo studio) nell’imbarazzo di dover commentare un quindici determinante che in pratica non si è potuto vedere.
Ma la volontà creativa del regista tedesco non si ferma a questo; e così si è inventato una sequenza perfetta per mandare in confusione gli spettatori: 1) servizio ripreso frontale basso, poi 2) una zoomata da mal di mare per stringere sul colpo in uscita dal servizio, seguita da 3) un repentino controcampo. In sostanza la prima parte dello scambio è ripresa da un versante di campo e la seconda dal versante opposto: per i telespettatori significa che la giocatrice che all’inizio dello scambio sta “in alto” passa “in basso” e viceversa:
https://youtu.be/ZW3glpVWVgM?t=150
Nei casi in cui le tenniste sono vestite con lo stesso colore si finisce per perdere completamente la bussola. Negli anni la sequenza diabolica è stata arricchita ulteriormente, aggiungendo all’inizio una inquadratura stretta sulla giocatrice al servizio, giusto per rendere le cose ancora più complicate:
https://www.youtube.com/watch?v=rNjkPNjJIyM&feature=youtu.be&t=443
Ricordo che il torneo di Stoccarda è forse l’evento WTA più ricco d’Europa, in cui le giocatrici sono coccolate in tutti i modi dal munifico sponsor Porsche; e probabilmente nessun torneo di pari livello può disporre di un superiore spiegamento di telecamere. Ma evidentemente in alcuni casi la ricchezza non è garanzia di qualità, specie quando prevale la voglia di strafare e si dimentica che lo sport va raccontato tenendo sempre presente che i veri protagonisti sono i giocatori in campo e non chi è seduto nella cabina di regia.