Il Giovedì Nero, come lo definì Dan Peterson, era iniziato quattro giorni prima. Il 14 gennaio, per la precisione. Novanta, forse cento centimetri di neve che hanno paralizzato Milano e si sono accumulati sul tetto suggestivo ma fragile del Palazzo dello Sport collocato tra Via Federico Tesio e Via Patroclo, a pochi passi dallo stadio di San Siro. Alle due di notte del 18 gennaio, il Palazzone (così lo chiamavano i milanesi), ovvero un gioiello di architettura sportiva inaugurato appena nove anni prima, si arrende alla spinta di oltre 800 tonnellate di neve che trovano il punto di rottura nell’avveniristica tensostruttura che funge appunto da copertura dell’impianto. Poi si pensa bene di porre rimedio alla situazione spruzzando acqua calda sul tetto ma quella in pochi attimi ghiaccia e peggiora la situazione. La Simac Milano, quella delle scarpette rosse, che sotto quel tetto a sella di cavallo ha vissuto i fasti del ventesimo scudetto e i giorni amari della retrocessione in A2, è improvvisamente senza casa. E con lei pure l’Indoor di Milano, il secondo torneo di tennis d’Italia in ordine di importanza.
Ma facciamo un passo indietro. Anzi, più di uno.
L’embrione si forma a migliaia di chilometri di distanza, nel cuore della Pennsylvania. È il febbraio del 1971 e Carlo Della Vida vola a Philadelphia per cercare di far sedere l’Italia al tavolo della WCT di Lamar Hunt. Il nuovo circuito del petroliere texano vorrebbe espandersi anche in Europa e a tal proposito il promoter romano ha qualche idea in testa. Milano è la capitale industriale del paese e merita uno spettacolo di prima grandezza. L’impianto c’è ed è nuovissimo e, anche se la sua conformazione non è proprio l’ideale per seguire il tennis, con qualche accorgimento può certamente diventarlo.
Della Vida non è superstizioso e di certo non teme che l’esito della sua iniziativa possa essere amaro come lo sponsor che dà il nome alla manifestazione. Per l’uomo che ha portato in Italia gli Harlem Globetrotters, far giocare Bjorn Borg al Palazzone è una scommessa già vinta. Infatti, dal 27 marzo al 2 aprile 1978, sono ben 76.841 gli spettatori che presenziano alla Ramazzotti Cup e hanno la buona sorte di assistere all’originale interpretazione del gioco fatta dallo svedese, che di lì a qualche mese centrerà la prima di tre consecutive doppiette Parigi-Wimbledon. L’unico a cercare di sottrarsi alla ragnatela di dritti e rovesci arrotati è, in semifinale, il “vecchio” Stan Smith che sfrutta la velocità del tappeto sintetico e capitalizza al massimo servizio e volee. Ma, alla fine della fiera, dopo aver incamerato il primo set al tie-break, lo statunitense non ne ha più da spendere e i due parziali che restano sono per lui un breve calvario. Il giorno dopo Gerulaitis incasserà la sesta (di sedici, perché lo sapete vero che nessuno batte Vitas diciassette volte di fila?) sconfitta dall’amico Bjorn e il nome che inaugura l’albo d’oro è solo il primo di una lunga a fortunata serie di illustrissimi della racchetta.
“Io ho giocato a tennis, lui non so cos’abbia fatto!” Vitas Gerulaitis, sempre lui, inquadra alla perfezione il secondo campione di Milano dopo averci perso in semifinale. John McEnroe su quei fondi ci sguazza e quando è in giornata non sai proprio come prenderlo. Il pubblico gremisce il Palazzone come l’anno prima e chi ha acquistato il biglietto per la finale sente che la supersfida tra il campione in carica e l’uomo nuovo del firmamento potrebbe essere un evento memorabile. Invece Bjorn Borg ha altri pensieri per la testa, ovvero quelli che gli hanno fatto venire le minacce di rapimento e non solo da parte di un gruppo terroristico che rivendica vicinanza ideologica alle Brigate Rosse. Lo scandinavo, seguito a vista da una flotta di guardie del corpo, supera agevolmente i primi due ostacoli ma al terzo inciampa in John Alexander (un attaccante, tanto per cambiare) pur trovandosi avanti 4-2 nel terzo: l’australiano infila quattro giochi e otto punti (gli ultimi) di fila e lo sostituisce, si fa per dire, nell’atto di chiusura che consacra la stella di Johnny Mac.