“Hai visto la Vinci? Finalmente top 10, che grande. A me è sempre piaciuto il suo rovescio in slice eh, elegantissimo”. E la risposta, immancabile: “Sì, ma io la seguo da sempre, quando ha vinto il doppio juniores al Roland Garros con Pennetta io mi ero preso i biglietti apposta”. Ogni successo improvviso, ogni exploit inaspettato porta con sé queste due fazioni di appassionati (chiamiamoli così): da una parte i più classici autostoppisti del carro dei vincitori, dall’altra quelli che devono per forza dimostrare che no, loro sono i veri amatori, i veri esperti, i veri aficionados. E solo loro possono parlare dell’evento, perché c’erano quando nessun altro ci credeva.
“Peccato, secondo posto e adesso calendario durissimo, c’è di mezzo anche il Villareal in Europa League”. “Sì quello che vuoi, ma io ero abbonato in serie C eh, all’esordio con il Cittadella, 60.000 persone allo stadio, io ero là”. In questi giorni la Partenope dove ha la fortuna di abitare chi vi scrive “se ne cade” di discussioni del genere: non si accetta mai che qualcuno possa avere anche solo per un attimo un interesse fugace per qualcosa che abbia peso nell’attualità, bisogna sempre dimostrare di avere visto per primi, o apprezzato quando nessuno apprezzava, o gioito delle cose che gli altri ignoravano. Così troveremo tra cinque anni (presumibilmente anche meno) il dotto di turno che “Zverev fortissimo, me lo ricordo quando a nove anni, all’ITF di Canicattì battè al tiebreak del terzo addirittura il numero 613 del mondo all’epoca”. Perché non si possono sapere le cose a metà, non ci si può entusiasmare per qualcosa di cui non si conosca la A e la Z: o ti ricordi di quante palle break ha annullato Federer nei quarti di finale del suo primo torneo da professionista, o non puoi dire di essere un suo vero tifoso. Come capita quando un artista famoso o un personaggio rilevante scompare: tutti a citare Umberto Eco, tutti a riempirsi gli iPod di Michael Jackson e Amy Winehouse, prima di essere interrotti dal fedelissimo, da quello che era andato alla presentazione del primo libro in uno scantinato al Centro Occupato, o al concerto organizzato per raccogliere soldi e autoprodurre il primo cd sgangherato, “dov’eravate voi quando non erano famosi”.
Quando si verificano questi eventi così radicali, sembra esserci questa gara a chi per primo dice “lo sapevo, me n’ero già accorto”, come se ciò autorizzasse ad essere ritenuti i maggiori esperti, o i più grandi intenditori. Certo, non dovrebbe mai capitare neanche l’estremo opposto: “Buonissimo questo vino, leggero, sembra un rovescio di Federer. Bello, a due mani” (siete pregati di credere a quello che leggete, esperienze di vita vissuta). Insomma il tennis, ma lo sport in generale, andrebbe vissuto per quello che è, prima di tutto un gioco, per quanto competitivo e foriero di interessi economici giganteschi: non ha senso dover dimostrare di capirne quando in realtà non se ne ha un’idea, né doversi per forza ergere a sapienti, come se in palio ci fosse chissà quale riconoscimento. Bisognerebbe essere allergici all’apparire competenti, specialmente se lo si è davvero, proprio come si dimostra allergia al trionfalismo spicciolo che segue le mode del momento. Dire la propria sull’esiguo bagaglio tecnico di Sara Errani è lecito, ma costruttivo solo se si apprezza, o quantomeno rispetta anche chi invece sostiene sia da encomiare a prescindere, per il carattere granitico e perché nonostante il suo metro-e-un-chewing-gum è riuscita a competere con le migliori. E a nessuno interessa se fino alla scorsa settimana credevate che i corridoi valessero anche nel singolo, mentre adesso siete grandi esperti della doppia finale al Roland Garros della Schiavone: né otterrete nulla se davvero eravate in prima fila quando Kyrgios era numero uno Juniores, adesso che pare stia definitivamente esplodendo nel circuito maggiore.
C’è da essere tifosi del gioco, innamorati della bellezza di un gesto tecnico o di un torneo in particolare. Tifare e lasciar tifare. E comunque, io in serie C ero davvero abbonato eh.