Nel tennis WTA una finale di Premier Mandatory è importante per definizione; alcune volte, però, finisce per assumere un peso ancora maggiore per ragioni e circostanze particolari. Come nel caso della finale di Indian Wells tra Serena e Azarenka: era particolarmente importante non solo per il palmarès delle protagoniste, ma anche perché si affrontavano due giocatrici reduci da periodi difficili, che avevano sollevato seri interrogativi sul loro futuro. E la partita avrebbe potuto fornire alcune risposte in merito.
Forse potrebbe apparire esagerato parlare di periodo difficile per Serena, che ha alle spalle una finale (Australian Open) e una semifinale Slam (US Open); ma questo è il destino dei fuoriclasse: condannati a raggiungere sempre gli obiettivi massimi. Anche Azarenka doveva provare di saper tornare ad alti livelli in un grande torneo, dopo che aveva quasi interamente saltato per infortunio una stagione (il 2014), mentre in quella successiva aveva deluso le aspettative.
– Serena Williams
Per Serena, dopo il mancato Grande Slam e la finale persa a Melbourne, la domanda che ha cominciato ad aleggiare è: sta arrivando il momento del declino? Naturalmente non credo che una sola partita possa dare risposte definitive, ma di sicuro una sconfitta in due set (6-4, 6-4) non è il modo migliore per fugare le perplessità.
A mio avviso ci sono tre aspetti fondamentali da indagare: quello mentale, quello tecnico, quello fisico. Cercherò di farlo mantenendoli separati, anche se inevitabilmente le ragioni si intrecciano fra loro.
Questioni tecniche: devo dire che la Serena di Indian Wells mi è sembrata una giocatrice un po’ diversa da quella di Melbourne, ma soprattutto abbastanza diversa da quella dell’anno scorso. Nel torneo californiano ho avuto per la prima volta la sensazione di una giocatrice quasi monodimensionale: tutta basata sulla potenza e sulla conclusione più rapida possibile.
Si obietterà che queste sono sempre state le caratteristiche del suo gioco; però in passato, quando la partita si metteva male o negli snodi fondamentali dei match, Williams era anche capace di optare per un tennis meno sbrigativo e rischioso, in favore di scambi più articolati e costruiti. Dimostrava di poter mettere in campo un gioco più accurato, basato su una mobilità attenta e sull’avvicinamento alla palla attuato attraverso i baby step. E così sui punti veramente importanti, anche quando il palleggio si allungava, finiva quasi sempre per vincere lei.
Serena era consapevole che per le sue caratteristiche fisiche un gioco del genere non poteva essere la regola; era piuttosto il suo “piano b”: sapeva di potervi attingere, e nelle rare volte in cui si trovava in difficoltà spesso era proprio questo l’atteggiamento che le permetteva di rovesciare le partite. Una capacità che l’aveva più volte salvata a Parigi nel 2015, e alla fine si era aggiudicata un Roland Garros in cui aveva accettato di lottare, correndo e faticando per risalire la china nelle partite in cui aveva perso il primo set.
Ma a Indian Wells questo non è successo. O meglio: forse è accaduto in uno scambio soltanto, il primo dell’ultimo game, quando ha vinto un grande punto concluso da uno rovescio lungolinea:
https://youtu.be/SuCvV4BWHQY?t=478
Per il resto del match, invece, anche nei momenti topici, si è vista praticamente solo la Serena che spinge a tutta e cerca di chiudere il prima possibile. L’atteggiamento era così estremo che a un certo punto della partita ho iniziato a pensare che questo modo di giocare (cioè la ricerca del vincente praticamente su qualsiasi colpo) era tatticamente molto simile a quello che adottano i giocatori quando si infortunano: con la consapevolezza che non si può più reggere lo scambio lungo, si allevia la sofferenza affidandosi esclusivamente al proprio talento di braccio per provare a giocare colpi definitivi “a vita persa”. O la va o la spacca.
Ma la migliore Serena non è mai stata così; se c’era un punto da vincere assolutamente era disposta a giocarselo con lo scambio, ad esempio senza prendere azzardi in risposta sulle prime di servizio avversarie. A Indian Wells invece in risposta ha “sparato” sistematicamente, con risultati alterni.
Cosa dobbiamo pensare? Le spiegazioni si possono forse trovare spostandosi sulle questioni fisiche e mentali. Potrebbe essere che davvero Williams non riesca più a mettere in campo il suo “piano b” per limiti fisici. I limiti potrebbero essere temporanei (forma precaria) o strutturali. Sarebbero strutturali se fossero dovuti a usura e all’avanzare dell’età. Se così fosse, allora in futuro dobbiamo aspettarci solo partite condotte come la finale di Indian Wells.
Questo non significa che non possa più vincere grandi tornei, perché comunque con quel tipo di tennis in California ha sconfitto in due set tutte le giocatrici incontrate (Azarenka a parte); ma se così fosse, non sarebbe più nella condizione di notevole superiorità mostrata la stagione scorsa nei confronti delle avversarie. Specie contro le giocatrici molto forti nel contenimento, capaci di reggere alla prima ondata di colpi per poi contrattaccare, potrebbe diventare più complicato per Serena avere la meglio.
Ma forse i problemi sono di origine mentale: un mix di stanchezza per il tanto tennis alle spalle, di delusione per il Grande Slam mancato di un soffio, di appagamento per le innumerevoli vittorie ottenute. E l’obiettivo del superamento del record di Steffi Graf ed eventualmente di Margaret Smith Court (21 Slam contro 22 e 24) invece che dare una motivazione ulteriore finisce per produrre troppo stress.
Per il momento non riesco a scegliere tra le diverse ipotesi. Forse c’è una parte di verità in ognuna, e l’insieme di tutte produce questi effetti. Solo il tempo e i prossimi grandi tornei potranno dirci di più su questi temi. Di sicuro i numeri certificano la difficoltà: se non ho fatto male i conti, dal 2012 al 2015 Serena aveva vinto 29 finali su 31 disputate; nel 2016 ne ha perse 2 su 2.
– Victoria Azarenka
Per rimanere sui numeri: le uniche due finali perse da Serena nel periodo citato sono arrivate nel 2013 per mano di Victoria Azarenka. Anche questo spiega perché in molti (e mi ci metto anch’io) aspettavano un ritorno ad alti livelli di Vika, la giocatrice che negli ultimi anni aveva saputo proporsi come avversaria più credibile della numero uno del mondo, ma che aveva perso quasi tutto il 2014 per un infortunio al piede. E la mancanza di alternative all’altezza aveva finito per far sentire ulteriormente il vuoto.
Come spesso accade, anche per Azarenka il rientro ad alti livelli dopo un infortunio non è stato facile né immediato. In più nel 2015 ha aggiunto il cambio di agente (da Lagardere a IMG), di allenatore (l’abbandono di Sam Sumyk, sostituito da Wim Fissette), i problemi nel recuperare il peso forma, e la persistenza del dolore al piede sinistro.
È stata la stessa Azarenka a raccontare in due articoli su Sports Illustrated le proprie difficoltà. Scrive nel novembre 2015: “Sono riuscita a giocare con il dolore per la maggior parte della stagione, cercando di concentrarmi sulle mie performance nei tornei dello Slam. Ma per quanto ci si sforzi di ignorare il dolore, è difficile riuscire a toglierselo dalla mente”.
A Wuhan aveva deciso di chiudere la stagione in anticipo, proprio nel tentativo di avere più tempo per guarire definitivamente. Ed è quello che finalmente è accaduto.
Azarenka spiega i progressi nell’ultimo periodo: “A causa del dolore dovuto all’infortunio, avevo finito per cambiare i miei movimenti: per evitare di soffrire avevo tolto dal mio repertorio il modo di arrestarsi e spingere sul piede correttamente, modificando la meccanica ideale. (…) Così la sfida durante l’offseason è stata proprio re-imparare a fare i cambi di direzione come si deve. E la parte più difficile non è stato tornare a farlo, ma farlo in modo agile e veloce. (…) I primi giorni continuavo a perdere l’equilibrio, e quando finalmente ci sono riuscita mi sono sentita come quando i bambini aprono i regali di Natale!”.
E oltre alla testimonianza scritta Vika propone alcuni filmati come questo:
La differenza tra la “nuova” Azarenka e la vecchia è testimoniata dai risultati: se nel 2015 aveva raggiunto una sola finale (persa a Doha da Lucie Safarova), nei primi mesi di 2016 ha già vinto Brisbane e Indian Wells. Si può dire che quest’anno abbia sbagliato un solo match, il quarto di finale a Melbourne contro Angelique Kerber, quando si è fatta sorprendere da un’avversaria in stato di grazia, che forse aveva anche un po’ sottovalutato a causa dei precedenti: sei vittorie a zero, con l’ultimo successo ottenuto per 6-3, 6-1 qualche giorno prima.
Finalmente i tasselli del tennis di Azarenka stanno trovando il loro posto: senza chili di troppo è tornata ad essere l‘unica giocatrice sopra il metro e 80 in grado di difendere davvero ad alti livelli; nelle fasi di contenimento nessuna delle tenniste più alte del circuito (Pliskova, Sharapova, Venus, Kvitova, Ivanovic) si avvicina a lei. Bisogna scendere di qualche centimetro di statura per arrivare a Caroline Wozniacki, che però in compenso non può nemmeno lontanamente vantare l’attitudine aggressiva di Vika, che è capace di ritmi molto alti, notevole potenza e con la rara qualità di saper entrare nel campo per tagliare gli angoli di palleggio e togliere il tempo all’avversaria.
Se a queste doti aggiungiamo una delle migliori risposte del circuito abbiamo il quadro della giocatrice con le caratteristiche più adatte per provare a contrastare lo strapotere di Serena. Rimane il suo storico punto debole: un servizio ballerino, con la seconda che a volte la tradisce nei passaggi chiave, e che anche nella finale di Indian Wells le ha causato i maggiori problemi. Per me è più un problema mentale che tecnico (ricordo i tre doppi falli nel game che avrebbe potuto darle la vittoria contro Serena a Madrid nel 2015); però per compensare questo limite a Indian Wells c’è stata la capacità di salvare 11 palle break su 12.
In un periodo in cui per ragioni differenti molte delle migliori stanno deludendo, il ritorno ad alti livelli di Azarenka è finalmente una buona notizia per la WTA. E, come sempre, quando arrivano i risultati il computer certifica attraverso il ranking: dopo quasi due anni Vika è di nuovo fra le prime dieci del mondo.