Chissà dov’era il trentunenne Lamar alle 12:30 di quel maledetto venerdì 22 novembre 1963, mentre Lee Harvey Oswald (o chi per lui o chi insieme a lui) colpiva a morte John Fitzgerald Kennedy in Dealey Plaza? Forse a Kansas City, dove i suoi Chiefs, alla prima stagione con quel nome nella AFL, la domenica precedente avevano impattato 24-24 con i Boston Patriots. Forse invece era proprio lì, a Dallas, la sua città, la città in cui qualche anno prima aveva fondato i Texans dopo che la NFL gli aveva rifiutato sia l’iscrizione con una nuova franchigia che l’acquisizione dei Chicago Cardinals. La città in cui, secondo quanto trasmesso dalla famosa Commissione Warren alla CIA, il giorno prima dell’attentato Jack Ruby aveva incontrato il padre di Lamar, Haroldson Lafayette. E poi Ruby aveva ucciso Oswald, annebbiando ancora di più una vicenda già di per sé piena di interrogativi.
Storie di football americano, di politica e di petrolio, in quel Texas che noi europei conoscevamo innanzitutto grazie ai due John del cinema western per eccellenza: il regista Ford e l’attore Wayne. Ma non era più il tempo di indiani, cow-boys e della febbre gialla perché negli anni ’60 l’oro più prezioso era quello nero che sgorgava dai pozzi e la famiglia Hunt, di quei pozzi, ne possedeva in buona quantità. Tanto da permettere a Lamar di alimentare i propri sogni e diventare uno dei dirigenti sportivi più lungimiranti e innovatori della storia americana.
È sua, tanto per farci un’idea del personaggio, la paternità del nome “Super Bowl”, come Hunt definì la sfida, voluta per celebrare la fusione delle due leghe, che andò in scena al Memorial Coliseum di Los Angeles il 15 gennaio 1967 e che mise di fronte i Kansas City Chiefs (campioni AFL) e i Green Bay Packers (campioni NFL). Per la storia, vinsero questi ultimi 35-10 ma la franchigia di Lamar Hunt dovette attendere solo quattro anni per salire sul tetto del mondo e lo fece sotto le nubi cariche di pioggia che incombevano minacciose sugli oltre 80.000 del Tulane Stadium, a New Orleans.
Era l’11 gennaio 1970 e qui inizia la storia che ci riguarda più da vicino.
Non solo football, Lamar Hunt. Anche tennis. E anche nel tennis, innovazione. Ne abbiamo già parlato, in occasione dei tornei di Filadelfia e Milano, del notevole impatto che il World Championship Tennis, la creatura voluta da Hunt e da Dave Dixon, ebbe sul patinato e certamente tradizionalista mondo della racchetta. Fu nel circuito WCT che venne introdotto per la prima volta il tie-break, così come la possibilità di indossare magliette colorate e altre iniziative arrivarono con il preciso intento di trasformare lo sport in spettacolo.
Nel 1970 quasi tutti i migliori giocavano nel WCT: Laver, Rosewall, Newcombe, Roche, Okker, Pancho Gonzales, Gimeno e così via. Mancava però qualcosa per completare l’opera e l’anno dopo, anche per rompere le uova nel paniere alla Federazione Internazionale (che a quei tempi era un po’ come dire il cane e il gatto), Hunt e i suoi decisero di organizzare un torneo di fine stagione che raggruppasse i migliori per farli affrontare tra loro. Fu così che, tra Houston e Dallas, a fine novembre 1971 e qualche giorno prima che a Parigi andasse in scena il Masters del Grand Prix, si giocarono per la prima volta le WCT Finals.
Il luogo designato per i quarti e le semifinali è l’Hofheinz Pavillon di Houston. I primi migliori otto della storia sono, nell’ordine: Laver, Okker, Rosewall, Drysdale, Ashe, Newcombe, Riessen e Lutz. Tre americani, tre australiani, un sudafricano e un olandese. Tabellone ad eliminazione diretta e match al meglio dei cinque set. Banale, direte, ma per decenni sarà a questa semplice formula che si ispireranno tutti i (tanti) detrattori di quella adottata nel Masters.
Si gioca su un fondo velocissimo, lo Sportface, ma lo spettacolo non ne risente affatto. Anzi. Due sfide incerte e due molto più scontate danno a Laver, Rosewall, Okker e Ashe le semifinali. Ken si vede annullare due match-point nel terzo set da un Newcombe reduce da tre settimane di inattività ma nel quarto non perde la calma e passa il turno; spietati Rod e l’olandese, rispettivamente contro Lutz e Riessen, mentre Ashe impiega quattro set per venire a capo di Drysdale.
Senza sussulti le semifinali: Rosewall tramortisce il quasi perfetto Okker del giorno prima mentre Laver si spaventa solo nel secondo set, quando Ashe lo tempesta di ace, ma alla lunga fa rispettare la tradizione che lo ha visto sempre vittorioso in precedenza sul tennista di Richmond: 6-3 1-6 6-3 6-3 lo score.
Per la finale si vola a Dallas e l’attesa di cinque giorni giova forse più a Rosewall che a Laver. Al Memorial Auditorium ci sono 8.212 spettatori, meno di quelli che lo gremirono il 13 settembre del 1960 in occasione dell’incontro con l’allora senatore Kennedy durante la campagna per le presidenziali ma pur sempre una cifra ragguardevole. Quella volta JFK citò Thomas Paine e disse che, a differenza di quest’ultimo, lui credeva nella rivoluzione del ‘66 e nel fatto che le cause di tutti gli uomini erano le cause dell’America e che avrebbe lottato affinché la libertà e la pace fossero patrimonio universale. Ma lui, come ben sappiamo, al 1966 non ci arrivò.
Tra gli invitati speciali, quello più speciale è probabilmente l’astronauta Neil Armstrong, colui che ha messo per primo un piede sulla luna. “Rocket Man” è falloso al servizio, concede il break che decide il primo set (6-4) ma domina il secondo 6-1. Nel terzo segmento, sulla situazione di 5-6 e 30-30 servizio Rod, una pallina scheggia la racchetta di Rosewall e gli finisce in un occhio. Attimi di preoccupazione, poi Ken riprende il gioco e vince 21 dei 29 punti successivi. Laver, tra il serio e il faceto, commenterà: “Credo sia finita nell’occhio sbagliato”. Rosewall si aggiudica i tie-break del terzo e quarto set ed è il primo campione del mondo WCT, con tanto di enorme trofeo tra le mani e un assegno da 50.000$ in tasca. Laver ha vinto un gioco in più ma Rosewall gli ha sottratto quelli importanti.
Per favorire la copertura televisiva da parte della NBC, le finali vengono anticipate al mese di maggio e così sarà fino alla fine. Oltre alla data, cambia anche lo scenario; si gioca sempre a Dallas e non più all’Auditorium bensì al Moody Coliseum, ovvero la casa dei Mustangs che rappresentano la Southern Methodist University nella NCAA di basket.
Di nuovo di fronte nella finale, Rosewall e Laver si superano e si rendono protagonisti di quella che alcuni definiranno a lungo “la partita più bella della storia”. Almeno fino a quel momento. Un azzardo, certo, ma comprensibile. Questa volta il “Rod and Kenny Show” delizia ogni palato. Nel tardo pomeriggio del Mother’s Day, Rosewall e Laver iniziano la sfida e Ken fa di tutto per accorciarla. Sul 4-6 6-0 6-3 e 3-1 Rosewall, l’esito sembra avviato a una conclusione scontata ma è proprio lì che inizia il bello. Laver reagisce, recupera, aggancia l’amico, lo trascina al tie-break e lì lo fa nero (7-3). Il protrarsi della contesa mette in crisi i palinsesti della NBC: alle 18 ora della East Coast deve andare in onda il notiziario, sacro e inviolabile. Bud Collins e Jim Simpson, cronisti dell’evento, hanno già ricevuto dal direttore di rete Ted Nathanson l’ordine di scusarsi per l’imminente interruzione della diretta ma gli oltre 21 milioni di telespettatori sintonizzati sono un dato su cui riflettere e allora ecco che arriva il contrordine e il match resta in diretta fino al termine.
Il finale della finale delle finali è da libri di antologia. Laver recupera da 0-3 e salva un match-point sul 4-5 e 30-40. Nel tie-break Rod fa un piccolo balzo in avanti (3-1), viene subito ripreso ma ha l’opportunità di servire per il titolo sul 5-4. I suoi due servizi incocciano in altrettante risposte micidiali di rovescio e Rosewall ribalta il fronte per poi chiudere 7-5. “Dieci anni fa, a chi me l’avesse chiesto, avrei risposto che oggi sarei stato probabilmente a vendere assicurazioni a Sydney; non certo qui, ancora con una racchetta in mano e a giocare per intascare 50.000$ in un solo pomeriggio!”. Queste le parole del vincitore che si conferma campione del mondo. Insieme a lui gongolano anche Mike Davies e Lamar Hunt, la cui creatura sta riscuotendo tale interesse da indurre la federazione internazionale a scendere a patti per la stagione successiva.
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