A Stoccarda si è confermata Angelique Kerber, la campionessa del 2015 che domenica ha rivinto il torneo aggiudicandosi la finale per 6-4, 6-0. Ma fino a sabato la protagonista della settimana era stata l’altra finalista, Laura Siegemund. Partita dalle qualificazioni, ha vinto senza perdere un set i tre match necessari per approdare nel tabellone principale (contro Smitkova, Karatantcheva ed Hercog), e poi ha continuato con la stessa media, malgrado il valore delle avversarie che le si paravano lungo il percorso: due set a zero a Pavlyuchenkova, Halep, Vinci e Radwanska. Tre top ten sconfitte nello stesso torneo: una prestazione straordinaria, superata di recente forse solo da Belinda Bencic, che di top ten ne aveva sconfitte addirittura quattro, inclusa Serena Williams, per vincere a Toronto nel 2015.
Quando ho deciso di scrivere di Laura Siegemund ho subito avuto chiara una cosa: non avrei provato a descrivere nel dettaglio le sue caratteristiche, né avrei cercato di stabilire il suo valore; e questo per almeno due motivi.
Il primo è perché prima di questa stagione non ricordo di averla vista giocare, e quindi non penso sia giusto entrare nel dettaglio di una tennista della quale si ha una conoscenza superficiale (che nel mio caso significa: qualche spezzone di match agli Australian Open e a Charleston, più gli incontri contro Vinci, Radwanska e Kerber a Stoccarda).
Il secondo è perché ho il dubbio che il tennis espresso durante l’ultima settimana non sia rappresentativo del suo valore reale a lungo termine. Stiamo parlando di una giocatrice di 28 anni: per quanto sia reduce da stagioni che non ha dedicato integralmente al tennis professionistico, mi sembra difficile che a quasi trent’anni la sua qualità si sia stabilmente innalzata ad un livello tale da lasciare pochi game per match addirittura a tre top ten. Penso quindi sia più sensato sospendere il giudizio, ed eventualmente ritornarci sopra tra qualche tempo, dopo averla seguita di più, e anche in altri contesti.
Ho però deciso che avrei parlato di Laura Siegemund perché poteva essere ugualmente lo spunto interessante per ragionare su un tema che raramente capita di affrontare: i tempi di gioco nel tennis.
Da quello che ho visto a Stoccarda, la nota più interessante della sua impostazione è l’estrema atipicità, tanto che sarebbe limitativo definire il suo tennis semplicemente come “vario”: sembrava piuttosto concepito con l’obiettivo di dare il minor numero possibile di punti di riferimento all’avversaria; e questo lavorando non solo sui diversi spin (top spin alternati a back spin), ma anche sulla continua variazione della profondità di palla.
Questo obiettivo è stato perseguito innanzitutto muovendo costantemente lo scambio sulla verticale: palle profonde, palle medie con rimbalzo nei pressi della linea del servizio, e frequenti palle corte o discese a rete.
Mi concedo una breve divagazione ricordando una famosa partita del passato con una situazione affine: il secondo match tra McEnroe e Lendl a Parigi, Roland Garros 1988 (non parlo della finale del 1984, ma dell’ottavo di finale disputato quattro anni dopo) vinto da Lendl per 6-7, 7-6, 6-4, 6-4. Il quasi trentenne Mac, sceso al numero 18 del ranking e testa di serie numero 16, ormai non riusciva più a contrastare apertamente la crescente pesantezza di palla determinata dai nuovi attrezzi e dall’irrobustimento fisico di Lendl, e quindi era obbligato a costruire palleggi che cercassero di mascherare il deficit di potenza.
Si ricorda sempre il McEnroe grande volleatore, il maestro del serve&volley, ma Mac doveva anche disputare i game di risposta, e in quella stagione del declino contro un avversario come Lendl (per di più sulla terra battuta) aveva bisogno di una strategia adeguata per non farsi sopraffare. Se McEnroe non era riuscito a stare al passo coi tempi sul piano della forza atletica, possedeva pur sempre la superiore sensibilità e la grande manualità, due doti che gli consentivano di lavorare e piazzare la palla in modo inimitabile; e così nelle situazioni in cui non poteva conquistare immediatamente la rete aveva fatto ricorso a un palleggio “a elastico” che obbligava Lendl ad avanzare e arretrare; un avanti/indietro rispetto alla linea di fondo che rendeva molto più difficile a Ivan trovare gli appoggi giusti per sprigionare la maggiore potenza. Grazie a quella strategia Mac aveva fatto soffrire il rivale ben oltre il previsto.
Modificare il palleggio sulla verticale è un’operazione molto complessa, perché non richiede solo notevoli doti tecniche, ma anche capacità tattiche, di lettura dei tempi di gioco; perché se si decide di alternare parabole profonde a parabole più corte occorre che queste ultime siano proposte con spin e in situazioni tali da non essere “aggredibili” in modo definitivo dall’avversario.
Ecco perché di solito anche chi ama costruire un tennis articolato lo fa utilizzando soprattutto le variazioni geometriche destra/sinistra: differenti angoli per spostare l’avversario e conquistare spazi di campo non presidiati, dei quali avvantaggiarsi. Più raramente viene utilizzato il movimento sulla verticale, magari ulteriormente arricchito dalla palla corta o dalla discesa a rete.
McEnroe aveva giocato in quel modo, consapevole di partire da una situazione di inferiorità; e penso che molto probabilmente abbia ragionato in modo simile anche Siegemund: in un confronto lineare per lei sarebbe stato difficilissimo spuntarla contro avversarie top ten come Vinci e Radwanska (purtroppo non l’ho vista contro Halep) e quindi ha provato a mischiare le carte il più possibile.
Di solito ogni tennista finisce per proporre un ventaglio di soluzioni in base alle quali l’avversaria, dopo una iniziale fase di studio, trova quella che ritiene la giusta posizione per provare a rispondere a sua volta con le proprie armi. Ma non è accaduto a Stoccarda.
Siegemund ha cioè saputo mischiare le carte così bene che la mia sensazione è che né Roberta né Aga siano riuscite a definire con chiarezza quale fosse il modo giusto per contrastarla. E questo a partire dalla collocazione in campo: mai del tutto definita non solo in termini di geometrie destra/sinistra, ma ancor più in termini di profondità (più o meno a ridosso della linea di fondo).
Così anche due maestre del tennis manovrato e delle soluzioni molto tecniche come Vinci e Radwanska si sono trovate spaesate, finendo per esibirsi al di sotto dei propri standard. La mia interpretazione è che senza una chiara posizione da assumere in campo, senza avere trovato il naturale “ubi consistam”, a loro siano venuti a mancare i punti di riferimento: sia tecnici che tattici.
E visto che trovo insoddisfacente il termine “vario”, se dovessi provare a definire con una sola parola il tennis di Siegemund userei piuttosto il termine “aritmico”. Un tennis cioè in cui praticamente ogni colpo ha un differente tempo di gioco, e che produce una condizione disturbante per l’avversaria, che a causa di questa anomalia non ha la possibilità di entrare nel normale ritmo-partita.
A scanso di equivoci: non sto dicendo che di solito durante un match (ma perfino durante uno scambio) il ritmo di gioco sia sempre uguale e stabilito; ma di sicuro capita molto raramente che sia così sistematicamente diseguale, tanto da dare l’impressione di essere del tutto imprevedibile.
La questione non ha nemmeno a che vedere con la forza in assoluto delle giocatrici, è qualcosa di differente. Ci sono infatti tenniste, anche molto forti, che amano basarsi su una pressione di gioco costante, mantenendo ritmi sempre piuttosto alti sino ad arrivare ad asfissiare la propria avversaria: penso ad esempio ad Azarenka o Petkovic. C’è chi invece quasi sempre punta subito sulla massima velocità per chiudere rapidamente, come Serena o Kvitova. C’è chi lavora sul medio ritmo aspettando il momento giusto per cambiarlo e colpire con le accelerazioni, come Halep o Suarez Navarro. C’è chi ama adeguarsi ai tempi avversari per poi magari contrattaccare, come Kerber o Wozniacki.
Ma sono davvero molto poche quelle che hanno come primo obiettivo il togliere qualsiasi riferimento, dando l’impressione di suonare senza partitura, improvvisando totalmente lì per lì.
In anni non troppo lontani fra le donne forse qualcosa del genere, ad alto livello, lo aveva mostrato Maria Josè Martinez Sanchez a Roma 2010; aveva vinto il torneo alternando colpi tesi a soluzioni lavorate, mischiate a frequenti palle corte e discese a rete: ma tutto sommato i suoi tempi di gioco erano forse un po’ più schematizzabili.
Più di recente un’altra giocatrice che ha proposto una impostazione affine è stata Aleksandra Krunic nella sorprendente impresa agli US Open 2014, quando (anche lei proveniente dalla qualificazioni) sconfisse nel main draw Piter, Keys e Kvitova prima di perdere sul filo di lana da Azarenka. In quella settimana di grazia Krunic era nella condizione di variare moltissimi aspetti del gioco, a cominciare dal servizio: alternando prime “normali” attorno ai 160-170 km/h a botte del tutto inattese vicine ai 200 orari; e poi proseguendo con la stessa imprevedibilità durante il resto del palleggio.
A questo punto chi ha letto fino a qui immagino si faccia una domanda quasi inevitabile: perché si vede così raramente questo modo di giocare, perché sono così in poche a praticarlo?
Direi per diverse ragioni. La prima è perché è difficilissimo da attuare, tanto da richiedere una condizione tecnica e mentale straordinaria. E infatti ho citato il caso di tre giocatrici capaci di farlo appieno solo in quella che, per il momento, si può dire sia stata la settimana della vita. E’ tecnicamente complicatissimo eseguire con grande efficacia (e frequenza) palle senza peso che ricadono nell’ultimo metro di campo, alternate a drop-shot millimetrici, a discese a rete, ad accelerazioni improvvise.
Perché se è vero che in questo modo l’avversaria non entra mai in ritmo, è anche vero che nemmeno si acquisiscono punti di riferimento per sé: viene a mancare l’unità di misura, il metronomo a cui affidarsi per registrare il colpo. E’ quasi come se ogni volta si dovesse colpire per la prima volta, a freddo; e molto spesso (ad esempio con i drop-shot o con gli slice profondi) basta un nulla per sbagliare o perdere il punto.
Ho parlato di grande condizione non solo tecnica ma anche mentale perché questo modo di giocare finisce per scardinare le normali costruzioni del punto; lo scambio genera più spesso situazioni anomale e, ad esempio, ci si trova con maggiore frequenza a dover colpire nella terra di nessuno: casi in cui occorre grande rapidità di pensiero, attitudine all’improvvisazione e totale fiducia nei propri mezzi. Perché sono proprio questi i quindici che si “devono” vincere per sbalestrare le rivali, togliere loro sicurezza e farle sentire spaesate.
La seconda ragione per cui secondo me questo è un tennis poco praticato è perché, se per certi aspetti consente di non spendere tantissimo sul piano fisico, è al contrario estremamente esigente sul piano psicologico: tatticamente richiede attenzione ben sopra alla media; senza appoggiarsi alla routine e a uno spartito preparato, diventa mentalmente molto difficile mantenere la qualità necessaria per vincere. E nell’attuale faticoso circuito WTA la routine è anche un appiglio al quale attaccarsi per portare a casa match nelle giornate in cui si ha meno voglia o ispirazione.
Perché, e questa è anche la terza controindicazione, se si scende di livello con questo gioco aritmico si finisce per imbrigliarsi da sole, regalando gratuiti a ripetizione su palle che magari non sarebbero nemmeno state dei vincenti, ma solo la variazione dalla quale partire per costruire la situazione imprevista successiva.
Infine c’è l’ultima controindicazione: le avversarie studiano e cercano di individuare pregi e difetti di ciascuna rivale; e prima o poi anche il quadro di imprevedibilità e incomprensibilità proposto finisce per essere, se non totalmente, almeno parzialmente decrittato. Oppure semplicemente messo in crisi dalla scoperta di punti deboli in chi lo propone, punti deboli ai quali magari fatica a trovare rimedio.
Ecco perché questo genere di tennis è estremamente raro, e penso rimarrà tale anche in futuro. E mi pare difficile possa diventare un tipo di gioco in grado di portare stabilmente ad altissimi livelli.