D. Schwartzman b. [2] G. Dimitrov 6-7(5) 7-6(4) 6-0
Altro che Baby Federer. Grigor Dimitrov getta alle ortiche una finale già vinta, nella quale si era trovato, avanti di un set e di un break, a servire per mettere le mani sulla coppa più grande. Diego Schwartzman, argentino di pochi centimetri ma con tanti, tanti polmoni vede la sua prima conquista di un torneo ATP quasi oscurata dall’autodistruzione del bulgaro, messa in atto quando ormai tutti pensavano che la giornata sarebbe terminata liscia, con il successo di quest’ultimo come inalienabile diritto del tennista più talentuoso. Dimenticando così – grave ingenuità – che il tennis, per quanto elegante, non è una gara di fronzoli e spesso a spuntarla è chi dimostra la maggior tempra mentale. In questo campo Schwartzman, più giovane di Dimitrov di un anno e neppure testa di serie, ha fatto capire a tutti di essere un campione.
E sì che i segnali di un match tortuoso c’erano tutti, fin dall’inizio: il torneo aveva visto un alto numero di tie-break e un ancor più alto numero di break, dunque il primo set della finale non poteva fare eccezione. Dimitrov sottovaluta Schwartzman fin dall’inizio, considerando chiusi scambi che invece non lo sono e affrontando con eccessiva leggerezza troppe situazioni delicate; l’argentino, dal canto suo, si limita ad incrociare con dritto e rovescio topspin, senza varietà ma arrivando su tutte le palle avversarie senza mai darsi per vinto. I “quindici” sembrano non voler mai finire, Dimitrov viene messo nella difficile situazione di dover pensare per ogni colpo a una soluzione differente. Le prime crepe iniziano a farsi vedere dal sesto gioco del primo set, quando Grigor, avanti di un break, perde otto dei successivi nove punti, innescando una serie consecutiva di sette turni di battuta persi consecutivamente: il set iniziale deve perciò essere risolto al tie-break. Schwartzman, al servizio, è chiamato a fare qualcosa di più che seguire lo scambio, ma scegliere come impostarlo gli risulta poco naturale e così a testa di serie numero due guadagna una coppia di set point. Sul primo la sua palla corta si spegne in rete, ma in quello successivo l’avversario fa la stessa identica cosa: seguono una, due, tre, quattro grida di liberazione, a sugellare l’uno a zero per la Bulgaria.
Adesso Dimitrov è galvanizzato. Raggiunge subito palla game, sembra chiudere con un lob ma un tweener di Schwartzman lo costringe a giocare ancora un paio di punti, prima di poter essere il primo a conservare un turno di servizio negli ultimi tre quarti d’ora. Con uno che sfreccia da una parte all’altra del campo e l’altro che alterna chiusure dominanti a vuoti inspiegabili, la fiera del break ricomincia. Neanche a dirlo, anche questa si risolve al tie-break. Sì, perché Dimitrov si è trovato avanti 5-2 ma da lì si è smarrito, ritrovandosi solo in tempo per fermare il suo avversario mentre serviva per il set – dopo aver per giunta fallito nell’imitare il gioco di prestigio di Djokovic, mancando la tasca dei propri calzoncini con la pallina e suscitando un discreto imbarazzo. Infiacchito e pieno di dubbi, il tennista di Haskovo colpisce ormai con il pilota automatico, trovando sempre minor angolo e non riuscendo mai ad emergere dal pantano. Schwartzman invece, pur rispedito indietro da un back di rovescio profondo ad ogni suo tentativo di comandare lo scambio, conquista la parità nel conto dei set, complici gli inopportuni crampi del bulgaro.
Ormai fermo sulle gambe, nel set finale Dimitrov subisce il break alla prima opportunità e sfoga tutta la propria rabbia sulla racchetta, riducendola ad un cartoccio di grafite privo di forma. È l’inizio della fine: il numero di gratuiti di colui che, pochi minuti prima, aveva sfiorato con le dita la vittoria monta sempre di più, fermato soltanto sullo 0-5 40-pari. Sostituendo la racchetta, alla quale sono saltate ancora una volta le corde, il cervello del bulgaro va in tilt definitivamente. Dimitrov prende l’attrezzo nuovo e si ferma per un lunghissimo istante, per poi maciullarlo, tendere la mano al giudice di sedia Mohamed Lahyani che sta per assegnargli il terzo penalty point (che comporterebbe la squalifica) e venir anticipato nella seconda stretta di mano dall’abbraccio dell’avversario, quell’argentino tanto peggiore eppure tanto migliore di lui. Il pubblico, per una volta numeroso, lo sommerge di fischi fin quando dal microfono non escono fuori le sue parole di scuse. Poi, finalmente, è il momento di Diego Schwartzman. E mentre l’impianto audio dell’arena principale del Koza World of Sports gracchia la immortale hit dei Queen “We Are The Champions”, Grigor Dimitrov si allontana, nella metà campo vuota, desolata, in emblematico contrasto con quella coperta dal palco e dalle autorità locali che consegnano la coppa al vincitore. Sa che non succederà a Federer nell’albo d’oro del torneo. Gli si insinua, forse, nella testa tormentata, l’ennesimo dubbio: se non fosse destinato a succedere allo svizzero in nient’altro?