Eterna Knapp, la tennista che visse tre volte (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Una gemma dal torneo dei diamanti. Sono passati otto anni, ma appaiono lontani come se fossero di un secolo fa. Perché la sofferenza amplifica il tempo, ma se la oltrepassi ti costruisce una scorza impossibile da scalfire. E’ il 2008, un freddo febbraio, Karin Knapp ha appena vent’anni e ad Anversa batte Schnyder e Li Na prima di arrendersi in finale alla Henin numero uno del mondo. Squilli di tromba, ecco l’amazzone che con Pennetta e Schiavone (le Cichi Errani e Vinci a quel dì sono ancora nel bozzolo) ci guiderà verso il sol dell’avvenire tennistico. Perché ne possiede le qualità, già rifinite a Caldaro sotto la guida di Max Sartori e con l’esempio di un altro ruvido altoatesino, Andreas Seppi, suo primo idolo: tira forte, serve bene ma non è soltanto una bombardiera, visto che sa giocare pure lo slice di rovescio e legge con intelligenza le partite. E, a quell’età, è già a ridosso dell’elite, 35 del mondo. E può solo sorridere.
Invece il destino, amaro e beffardo, forse non le perdona di aver scelto definitivamente, a 12 anni, le racchette sbagliate, quelle che servono a colpire una pallina anziché mettere nella direzione giusta gli sci, sport che pratica dall’età di tre anni alternandolo al tennis e che le ha regalato perfino un tricolore baby. La tradisce il cuore, un’aritmia che la costringerà a due operazioni e ad abbandonare il sogno della trasferta olimpica a Pechino. Bastasse quello: nel 2009, il ginocchio destro diventa un campo di battaglia. Prima un’infiammazione, poi una rotula fratturata e infine un problema alla cartilagine, con conseguente, doppia operazione: Ho vissuto paure vere, anche il timore di non tornare più. E quando torni e senti che le cose non vanno troppo bene, beh, diventa ancora più dura. Non è facile fermarsi così spesso, superare tutte queste disavventure. Ma ne esco sempre più forte.. Tenacia, costanza, determinazione feroce, fiducia indomita nella risalita: come quando giocò il primo turno di un Challenger a Padova, vinse 7-5 al terzo, ripartì per Caldaro, diede l’orale della maturità di ragioneria (voto 76), tornò e vinse pure la seconda partita, sempre al terzo, ma stavolta 7-6.
Dunque, non può essere il precipizio della salute a trasformarsi nella tomba delle ambizioni, nonostante il tonfo al numero 700 e più di inizio 2010, anche perché durante la fisioterapia ad Anzio l’amicizia con il nuovo coach Francesco Piccari sboccia in qualcosa di più intimo e completo. Così lei, figlia rocciosa delle montagne sudtirolesi, trova sul mare che fu dei Latini l’ambiente generoso e sereno che la protegge e la rilancia, una seconda famiglia, malgrado il pegno con la sorte non sia ancora consumato del tutto. E’ storia di oggi: un 2015 spumeggiante, la vittoria a Norimberga, la finale a Bad Gastein, la miglior classifica di sempre ad agosto con il numero 33 di fianco al nome.
Prima di un nuovo crac, allo stesso ginocchio, prima di un’altra litania tra ospedali e riabilitazione: «Cosa sarei stata senza infortuni? Non lo so, non ho una risposta. lo sono questa anche per le traversie che ho passato, ma ho 28 anni e tanto futuro davanti a me, la cosa più importante è che sto bene e posso allenarmi e lavorare sul campo con continuità. E questa è già una grande vittoria”. Ancor più grande del successo sulla Azarenka di martedì, il primo contro una top ten in 19 match (…)
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L’Italia e la crisi dei maschi, da Camporese a Fognini un digiuno di quarant’anni (Cosimo Cito, La Repubblica)
Dove sia la vittoria, l’Italia del tennis non lo sa, non lo sa da quarant’anni. 1976, Panatta vince nello stesso anno Roma, Parigi e la Davis. Nell’ anno del Signore 2016 di ragazzi italiani sul rosso del Roland Garros non c’è già più nulla dopo tre giorni di partite. Se un tempo l’obiettivo negli Slam era arrivare alla seconda settimana, per gli italiani, gli uomini soprattutto, l’obiettivo è rapidamente diventato vincere almeno una partita. Il disastro è totale, con tratti di profondità mai avvertiti in un quarantennio comunque senza una soddisfazione che, almeno restando agli uomini, fosse una. Zero Slam e anche zero semifinali nei quatto Majors, zero vittorie nei Master 1000 (istituiti nel 1990), zero Davis (con una sola finale, persa nel 1998 dalla Svezia). Zero, e mille anni zero, mentre i tornei maggiori li vincevano anche cileni, brasiliani, ecuadoregni, austriaci, sudafricani, olandesi, per non dire di svizzeri, russi e serbi. Nonostante, almeno negli ultimi anni, la Federtennis italiana abbia iniziato a stampare tessere come fossero francobolli. Il trend è impressionante: dal 2001, l’anno col più basso numero di tesserati dell’ultimo ventennio italiano (129.797), si è passati agli attuali 329.897 ( 223.468 dei quali sono atleti ), record di tutti i tempi, un numero inferiore solo a quelli di Figc ( 1.400.000 ), Federvolley (451.936), Federbasket ( 364.206) . Le tre federazioni prese in esame, almeno negli ultimi vent’anni, hanno vinto e rivinto: un Mondiale di calcio (uomini 2006), tre di volley (uomini 1998 e 2002 ), un argento olimpico nel basket maschile nel 2006, più l’esportazione di sei giocatori in Nba.
Nel tennis non solo non è nato un nuovo Panatta, ma nemmeno un nuovo Barazzutti. Il miglior ranking degli ultimi quarant’anni di tennis azzurro è stato il 13 posto agganciato da Fabio Fognini nel 2014. Nonostante, anche, l’enorme numero di tornei organizzati dalla Fit, 8.427, quattro volte più i 2.600 circa del 2001, l’anno di inizio dell’attuale gestione, indicata da una orgogliosa linea verticale tirata nei grafici forniti dalla Fit. Perché l’Italia della racchetta maschile non riesce a produrre talenti? Una spiegazione prova a darla l’attuale allenatore di Milos Raonic, Riccardo Piatti: «A livello federale c’è un errore di fondo. Nonostante l’ottima situazione economica attuale, visti anche i numeri degli Internazionali di Roma, un torneo da 50 milioni di ricavi globali, si seguita a propugnare un’idea vecchia di tennis. Si continua a pretendere risultati, risultati e solo risultati dai giocatori, anche in categorie giovanili, anche dagli under 12. Vanno avanti solo i giocatori che vincono i tornei, gli altri vengono immediatamente bocciati. È una selezione innaturale che non tiene presenti le possibilità di evoluzione, anche fisica, che possono avere i ragazzini. Non c’è un’idea “canterana” alla base».
Una cantera, questo la Fit, secondo Piatti, dovrebbe creare. «Servirebbero scout seri e tecnici molto preparati dal punto di vista della crescita fisica dei giocatori. Il tennis sta diventando uno sport con una base fisica notevolissima, sulla quale deve installarsi la tecnica. Ma senza la prima, la seconda non serve a nulla. Una volta, ai tempi di Panatta era diverso. Piacerà poco, ma il tennis è così. Sapete quanti tornei vinceva Raonic da ragazzino? Zero. In Canada avrebbe dovuto mettersi a fare un altro lavoro». Pochi risultati ha prodotto l’attuale modello messo in piedi dalla Fit, quello della delocalizzazione dell’attività, con la nascita di quattordici centri federali su base regionale, tra i quali spicca Tirrenia, il centro tecnico nazionale, una sorta di Coverciano del tennis. Da lì però non sono usciti fenomeni, nonostante l’impiego di uno dei migliori tecnici a livello mondiale, l’argentino Eduardo Infantino, antico scopritore di Camporese e Pescosolido, che nel 2011, disse: «Ho stilato una lista di ragazzi da tenere d’occhio, tra due, tre anni vedrete i risultati». Ne sono passati cinque. Nel settembre 2012 l’Italia vinceva la sua prima e unica finora Coppa Davis juniores. A Barcellona Quinzi e Baldi battevano 2-1 l’Australia di Kokkinakis. Quinzi avrebbe anche vinto la versione juniores di Wimbledon. Dove sono, oggi, Quinzi e Baldi? Il primo, a vent’anni, l’età in cui Nadal aveva già vinto due volte sul rosso di Parigi, è attualmente il numero 436 Atp. Baldi, anche lui classe 1996, è addirittura numero 726, praticamente costretto a fare le qualificazioni anche nei Futures. Una generazione bruciata.
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E se il rimedio fosse comprare all’estero le nostre future stelle? (Gianni Clerici, La Repubblica)
Ricorro a Luca, il maggior esperto statistico dopo il ritiro di Tommasi, per rimemorare il 2001, l’anno in cui i quattro italiani presenti a Parigi furono eliminati al primo turno, così come ieri 6 su 7. E lasciamo perdere le dorate, che fino ad ieri erano la nostra salvezza, tra le quali ancora ci rimangono due presenze, una che giunge dall’Argentina, la Giorgi, e l’altra, la Knapp, da un luogo che fu austriaco, quello che noi chiamiamo Alto Adige, e altri Sud Tirolo. È un mezzo disastro, e un gentile lettore, qui penetrato grazie ai bagarini, me ne chiede il perché. Prendendola un po’ larga, riferendomi magari al mio amico Giampaolo Pansa, mi par di poter dire che l’interesse del fascismo per lo sport fosse finito insieme a molte malefatte, senza esser, per una volta, tale. La culla dalla quale potrebbero uscire i tennisti può essere di due tipi: una squisitamente privata, gestita dai genitori ex-campioni e maniaci, come avviene all’Est. L’altra, tipo Francia, dove esistono scuole federali che privilegiano il tennis insieme agli studi, o in Spagna, dove le levatrici spesso maschili dei campioni vengono economicamente premiate.
Da noi i risultati delle strutture gestite dalla Federazione sembrano meno fortunati, e senza aver la competenza di trovare il perché, come potrebbe accadere dopo una lunga inchiesta, mi pare il caso di suggerire un rimedio, magari temporaneo, simile a quello che mi condusse, nei lontani anni ’60, a partecipare alla ricerca di una nonna veneta e fasulla per Martin Mulligan, finalista di Wimbledon ’62, e in pessimi rapporti con la federazione australiana. Era allora Presidente del Tennis Club Olona, e avrebbe potuto divenirlo di quella italiana, guidata dal vecchio De Stefani, Giuseppe Stante, ‘il maoista con la Ferrari’. Ds della sua squadra era tale Clerici. Facemmo in modo che la squadra italiana di Davis, limitata al solo straordinario Pietrangeli, fruisse di un aiuto quale Mulligan, ciò che indignò più di un patriota. Proprio simile ricordo mi ha suggerito un’idea che, mi dicono, non è soltanto mia, ma è già stata sfruttata dal Presidente del Kazakhstan, Nazarbaev.
Perché, se non produciamo tennisti, non li acquistiamo? Nel tabellone del Roland Garros ritrovo infatti, tra gli uomini, Del Bonis, Bagnis e Trungelliti (Arg), Fratangelo (Usa) Bellucci (Bra), Mannarino (Fra) e fra le ragazze Razzano (Fra), Maria (Ger, moglie di italiano) Minella ( Lus), Chirico e Falconi (Usa). Un’altra buona idea sarebbe chiedere il rientro di ottimi coach, noti per i risultati, e ora espatriati, quali Piatti (coach di Raonic), Castellani (direttore della maggior Academy Messicana), Pistolesi (ex coach della Davis Giapponese, ora in Florida). Scuserà il lettore se trascuro i risultati di una giornata alfine priva di pioggia ma anche di sorprese (…)
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Le dieci fatiche di Murray sopravvissuto ancora al quinto set (Stefano Semeraro, La Stampa)
Da Bourgue (inteso come Mathias) alla Morgue (intesa come obitorio tennistico) il passo è breve, ma per il terzo giorno di fila Andy Murray l’ha scampata, scongiurando la sua personale Brexit (Britain-exit) dal Roland Garros. Dopo aver rimontato due set fra lunedì e martedì all’attempato Stepanek (anni 37 ), il campione in carica di Roma è riuscito a complicarsi la vita anche contro il 22enne qualificato francese. Negli ultimi due anni Murray sul rosso ha conquistato 3 tornei e in percentuale (80) vinto più di tutti, Djokovic e Nadal inclusi. Dovrebbe essere farcito di autostima, invece pare aver paura persino della sua ombra , quasi che il nuovo ruolo di favorito in coabitazione con Nole e Rafa lo sgomenti. Ora trova Karlovic Interrogato, ha negato che si tratti dei postumi della rottura con Amelie Mauresmo e spiegato di aver «smarrito la strada» contro Bourgue. «All’inizio del 3° set mi sono chiesto: cosa sta succedendo? Poi ho pensato che ero già sopravvissuto a match del genere». Nessuno invece, nell’era Open, ha mai vinto al Roland Garros dopo aver giocato 5 set nei primi due turni. Al terzo gli tocca l’altro irriducibile nonnetto Ivo Karlovic (37 anni), anche lui uscito da una maratona (…)