Intervista a Roger Federer: “Sono soltanto un tennista” (Stefano Semeraro, La Stampa)
Sul campo si muove come un danzatore a cui sia comoda l’aria, indifferente il terreno. Un predestinato, un prescelto. Ma non un Divo, nonostante i sette titoli a Wimbledon, i quasi cento milioni di dollari vinti, i cinque milioni e duecentosettantamila follower su Twitter, l’aura da living legend. Nessun atteggiamento da vip, zero spocchia. Un (quasi) 35enne radicato in questo pianeta, nato in Svizzera ma cittadino globale con un pezzo di Africa nel sangue – mamma Lynette è sudafricana – che sa di possedere un dono e conosce la fatica e la gioia di custodirlo. Di trasmetterlo. Un uomo a cui essere Roger Federer, in fondo, non pesa più del necessario. E che prova a spiegartelo, deposto con leggerezza su un divanetto nascosto nel cuore del Foro Italico, muovendo nell’aria le mani da direttore d’orchestra con cui è abituato da sempre a disegnare concetti.
Mister Federer, il tennis può essere avvicinato, in alcuni casi, all’arte? Possono, un diritto, un rovescio o una volée, essere definiti un capolavoro?
«Perché no. Ma non sta a me giudicarlo. Il tennis è uno sport estremamente elegante, se lo guardi al rallentatore e ci aggiungi un po’ di musica in sottofondo, ecco che diventa una danza. E il balletto è arte. Anche il tennis ha questa dimensione».
David Foster Wallace, che le ha dedicato un libro, sosteneva che assistere ai suoi incontri può trasformarsi in un’esperienza religiosa. E’ d’accordo?
«Parlare con Foster Wallace fu strano. Un’intervista completamente diversa da tutte le altre. Alla fine mi chiesi: ne verrà fuori un bell’articolo? Non ne ero così sicuro. Non lo conoscevo per nulla, non sapevo se il nostro incontro avrebbe prodotto qualcosa di magico o di orribile. Alla fine fu pubblicato, e piacque a tanta gente. Ricordo che mi dissi: “okay, magari ha esagerato un po’…”. E sicuramente aveva esagerato un po’. Ma capita spesso, nello sport. “Questo sportivo è grande, è pazzo, è bravissimo, è un fenomeno”. Un passo ancora ed entri nella dimensione dell’ “eroe”. Si usano tanti superlativi, a volte anche in negativo, ma va bene così. La parte che riguarda il rapporto con i media è interessante. Occorre trovare un equilibrio, come in tutto. Il fatto è che io sinceramente mi considero un tennista: niente di più. Magari mi fa piacere essere un modello per i ragazzini, e un buon rappresentante della Svizzera, perché sono molto orgoglioso delle mie radici. Ma finisce lì».
Non sente mai il peso di essere Roger Federer? Il Federer pubblico, l’icona dello sport mondiale, il campione di fair-play che non può permettersi di sbagliare mai.
«Roger Federer per me non è uno sportivo. Roger Federer sono io: quello che sono sempre stato, quello che tornerò a essere dopo il tennis. È interessante vedere come la gente interagisce con me, considerato che sono ricco, famoso, un uomo di successo. Ma poi c’è l’altra parte, la mia vita semplice infilata all’interno di una realtà decisamente folle. La mia forza è la capacità di staccare. Quando sono al tennis gioco a tennis, amo il tennis, respiro tennis. Ma appena lascio il circolo, non dico che sono una persona diversa, perché sono sempre lo stesso, sia che parli con i media, con i fan o con i miei quattro figli; però dimentico tutto ciò che riguarda il tennis e mi considero una persona normalissima. Questo equilibrio è stato fondamentale per continuare ad amare il tennis così a lungo. Che abbia sempre gli occhi puntati addosso fa parte del gioco, non me ne lamento. Sono una persona molto semplice e genuina, non faccio cose strane, quindi non mi viene difficile comportarmi bene».
C’è qualcosa che vorrebbe fare, ma che Roger Federer non può fare?
«Sì, molte. Vorrei andarmene a spasso. Montare su un autobus, prendere un treno e non dovermi preoccupare di nulla. Invece devo sempre organizzarmi. Devo pensare: voglio davvero che mi riconoscano? Voglio farmi fotografare? No? Allora è meglio che non vada in quel posto. Sono un tipo spontaneo, anche quando vengo a Roma per il tennis vorrei tanto andare a visitare il Vaticano, farmi una passeggiata. Non sempre è possibile. L’anno scorso però sono andato a Piazza Navona, alla Fontana di Trevi, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Mi hanno riconosciuto solo in due. Perché ero solo, senza famiglia, giusto con qualche amico. È stato bellissimo. Alla fine la vita è questa. E io non vivo nella bolla della mia celebrità».
Ci sono sportivi, ad esempio Muhammed Ali, che hanno cambiato il mondo. Lei sente di avere questa possibilità?
«Leggo i giornali tutti i giorni, e non solo le pagine sportive. Cerco di tenermi informato. Ci sono notizie dure da digerire. Io e la mia famiglia siamo molto consapevoli di viaggiare attraverso il mondo visitando solo i posti più belli, senza trovarci mai faccia a faccia con le realtà più difficili. Leggiamo, cerchiamo di capire, di formarci un’opinione. Non credo di poter cambiare il mondo. Quello che posso fare è aumentare un po’ la consapevolezza attorno a certi problemi attraverso la mia fondazione. So di avere la possibilità di cambiare la vita di qualche ragazzo in Sud Africa, di dargli una chance attraverso l’educazione, che è un valore non negoziabile. Noi lavoriamo con le organizzazioni non governative sul posto, le sosteniamo finanziariamente. Ma alla fine ciascuno deve essere padrone del proprio destino. Non voglio fare la figura del tizio che viene dalla Svizzera e insegna alla gente come si vive in Sud Africa. Voglio aiutare i giovani, ma facendo in modo che si aiutino da soli. La fondazione ha investito 67 milioni di dollari, abbiamo un capitale di io milioni di dollari, il nostro progetto è di aiutare un milione di bambini entro il 2018, dopo n anni di attività. Le esperienze che ho potuto fare viaggiando in questi posti sono state le più incredibili della mia vita, e ogni volta sento che posso imparare qualcosa. Vivo con i ragazzi, mangio con loro, prego con loro. E mi considero fortunato ad avere una opportunità del genere attraverso il tennis».
Ha detto prima che le piace essere un esempio per i giovani: chi sono stati i suoi modelli, da ragazzino? E quale personaggio pubblico vorrebbe incontrare oggi?
«All’inizio mi ispiravo agli sportivi, come capita spesso ai ragazzi. Poi, quando sono cresciuto, ho capito l’importanza e la grandezza di Nelson Mandela. Oggi, stranamente, non sento la necessità di conoscere delle celebrità. Amo sia stare con i miei cari sia conoscere persone nuove, ma che siano famose o no, che sappiano o no chi io sia, le assicuro che non fa nessuna differenza». La politica la tenta? «La politica è interessante, seguo quella svizzera e quella mondiale, ma in futuro mi vedo più come manager o uomo d’affari (…)