Per una fetta corposa di aficionados della racchetta, Paolo Lorenzi – o meglio la categoria di tennisti che il senese dalle gambe d’acciaio degnamente rappresenta – è più un’esperienza mistica che una semplice passione. Irrinunciabile infatti, per alcuni, l’ebbrezza genuina che solo i Davide del mondo sprigionano nell’abbattere senza né fionda né pietra il Golia di turno. Quelli che, per intenderci, da fanciulli davanti ad un cartone animato si schieravano incondizionatamente dalla parte del più debole e che poi, da adulti, per soddisfare il proprio palato, ad una bistecca di Kobe preferiscono di gran lunga una montagna di vile spezzatino. E che, soprattutto, provano un senso benefico di rivalsa ogni qualvolta che a finire in paradiso sia un esponente della classe operaia.
Anche nel tennis, come del resto in ogni ambito della vita umana, ciò è difficile ma ovviamente possibile. Il che significa poter diventare il quarantottesimo giocatore più forte del globo senza portarsi da casa il diritto liquido di Federer o il rovescio da cineteca di Wawrinka. Senza spazzolare le righe con la chela diabolica di Nadal o difendere il fortino con l’elasticità a tuttotondo di Djokovic. Paolo, in ciò, è l’univoca attestazione di come si possa far la voce grossa con in tasca quattro spiccioli. Ed è per questo che a noi, gente tutto sommato comune, lui piace da impazzire. Almeno una volta nella vita tutti ci siamo sicuramente sentiti un po’ dei piccoli, grandi Lorenzi. Abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo per riuscire laddove ci ritenevano inadeguati e abbiamo corso, lottato e sbuffato trattando ogni quindici come se fosse l’ultimo. Fuori o dentro un campo da tennis, mai come in questo caso metafora della vita di ogni giorno.
Paolino, mentre noi scriviamo, è di stanza a Londra. Nell’attesa di levarsi l’ennesima soddisfazione di un’estenuante carriera, mai bella quanto ora. Più forte della carta di identità che presenta il conto salato di migliaia di chilometri macinati inseguendo a testa bassa una pallina. E non più tardi di qualche giorno fa il trentaquattrenne e chirurgo mancato Lorenzi ci confidava con tutta la serenità di questa terra di avere ancora in sé l’entusiasmo per inseguire nuovi obiettivi. Il best ranking, innanzitutto. Già centrato con caparbietà alla prima occasione utile. Poi Wimbledon, il mito. Chi non vorrebbe vincere almeno una partita nel tempio del tennis? Entrare in Church Road in punta di piedi di bianco vestito per poi stringere da lì a qualche ora la mano dell’avversario appena sconfitto? Una gioia simile sul libro dei ricordi di casa Lorenzi ancora non compare. Never say never again, recitava l’agente segreto più affascinante di Hollywood. Tempo al tempo, aggiungiamo noi. E questo tempo potrebbe già essere lunedì, con il domani che Lorenzi muore dalla voglia di trasformare in adesso. Alla sua combattiva maniera.
Entrato in tabellone per diritto di classifica – chapeau, intanto – il sorteggio ha scelto per Paolo il nome di un qualificato. Che, detta così, potrebbe apparire una discreta fortuna, ma sarà poi vero? Insomma. Non fosse altro per dover incontrare un avversario già rodato dalle specifiche condizioni londinesi e che, quantomeno, un minimo a proprio agio sui prati verdi ci si debba pur trovare, avendoci vinto tre partite in rapida successione. Fatto sta che il purgatorio delle qualificazioni ha sancito che a contendere il passaggio del turno al nostro fiero rappresentante sarà lo slovacco Lukas Lacko. Non proprio un carneade, almeno per gli osservatori più attenti.
Due parole su di lui. Nato ventotto anni fa a Piestany in Slovacchia da genitori entrambi insegnanti, Lukas gioca a tennis dalla tenera età di cinque anni. Appena maggiorenne il salto nel mondo dei Pro. Fisico possente – 188 cm di altezza per 85 chili di peso – destrimane e bimane nel colpire di rovescio con il diritto che si fa preferire in quanto a efficacia, Lacko attualmente si colloca al numero 124 delle classifiche mondiali ma con un best ranking da Top50 nemmeno troppo remoto. Correva infatti l’anno 2013 quando grazie ai quarti di finale raggiunti a Auckland in gennaio – battendo tra l’altro proprio Lorenzi in quello che ancora oggi rappresenta l’unico confronto diretto tra i due – Lacko si è arrampicato fino in quarantaquattresima piazza. Fidanzato con Simona, dalla quale ha avuto un figlio lo scorso anno e allenato dall’ex numero 6 al mondo e connazionale Karol Kucera, lo slovacco si dimostra competente nei fondamentali di inizio gioco dando il meglio di sé, in virtù di un gioco prettamente aggressivo, sulle superfici più rapide. A Wimbledon può vantare un più che onorevole terzo turno, raggiunto nel 2012 sconfiggendo prima Ungur e poi Melzer prima di cedere a Tsonga. Considera la vittoria nel Challenger di Seoul, in finale su Lodja, come il momento più alto della propria carriera. Un trionfo grazie al quale, per la prima volta, ha fatto capolino tra i primi cento. Non un’annata eccezionale, per lui, questo 2016. Sconfitto per due volte in stagione da tennisti azzurri non di primissima fascia – Giustino e Quinzi, forse è un record – può vantare come miglior risultato la finale nel Challenger di Guangzhou. Tuttavia a Londra è parso subito in palla con un bilancio di nove set vinti a fronte di uno solo lasciato per strada al cospetto del tedesco Kamke. Un tipo tosto, quindi, da prendere con le molle a dispetto di una classifica che probabilmente non gli rende giustizia.
Lorenzi, purtroppo, non si presenta a questi Championship forte di risultati incoraggianti conseguiti lontano dall’argilla. Dove anche quest’anno, per inciso, ha fatto le consuete faville. La stagione dei prati, giunta ormai alla vigilia del suo momento clou, recita dunque un desolante zero su due. Per via delle sonore sconfitte rimediate all’esordio di Halle e Nottingham per mano, rispettivamente, di Gabashvili e Mannarino. Onesti giocatori sì, ma lontani dall’essere considerati alla stregua di ostacoli insormontabili.
“Keep calm”, come recitano le magliette tanto in voga oggi. Perché Paolino ci ha prontamente fatto sapere, con una serenità granitica e un ottimismo contagioso, di sentirsi ogni giorno che passa sempre più a proprio agio a contatto con l’erba. Erba che, se proprio amica intima forse faticherà a diventarlo – considerate le peculiarità del tennis di Lorenzi e quella propensione ad indietreggiare dalla linea di fondo – non è mica detto che dovrà rimanergli ostile in eterno. E se lo dice lui non possiamo che fidarci ciecamente. Del resto, Paolo vi ha mai deluso?
Noi di Ubitennis, preoccupati e inguaribili curiosi, lo abbiamo intercettato a poco più di ventiquattrore dal debutto, sottraendolo chissà se al rituale tutto British del tè o ad una massacrante sessione di allenamento. Parlando del più e del meno e, quel che più importa, delle sensazioni ad una manciata di ore dal debutto, Paolino ci ha così voluto tranquillizzare: “Ti posso dire che ogni giorno che passa va sempre un po’ meglio però non so effettivamente a che punto sono perché sull’erba in carriera non ho mai giocato moltissimo. Lukas Lacko, il mio primo avversario qui a Londra, gioca bene su questa superficie ma lunedì cercherò comunque di metterlo in difficoltà con il mio gioco. Piedi nel campo che si vince, mi dici? Ok! Ok! (ride)”.
E allora Leave o Remain, Paolo? Lorenzi lunedì sera potrebbe aver coronato un altro dei suoi grandi sogni come potrebbe doverci riprovare l’anno prossimo. Ma non inganni l’onnipresente sorriso che disegna il volto di Paolo e quell’aria perennemente bonaria. Al nostro gladiatore col berrettino alla rovescia e il polsino tricolore non piace affatto perdere. La Brexit anche in questa più ludica circostanza non avrà dunque vita facile e la fine della storia potrebbe essere molto diversa da quella di Cameron. Con Lorenzi che a Londra cercherà di soggiornarvi il più a lungo possibile.