Gioia Del Potro: “Ero triste e a pezzi, mi diverto ancora” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Ci sono domande che seminano dubbi irrisolti sulle pagine di storia. E dunque, cosa sarebbe stato il tennis degli ultimi anni senza il polso sinistro martoriato di Del Potro? Lui, come e forse più di Djokovic, sembrava il predestinato a incrinare la supremazia di Federer e Nadal, lui si era infilato da trionfatore nella saga vincendo (contro Roger) gli Us Open del 2009, lui aveva battagliato alla pari nella finale di Davis due anni più tardi contro il miglior Rafa di sempre sulla terra. Abituati all’esaltazione dei Fab Four, in troppi hanno dimenticato che la Torre di Tandil, negli intervalli in cui ha sublimato la sua arte di splendido attaccante da fondo, meritava un posto a tavola con loro, trasformando in cinquina quel contesto straordinario.
E invece un tendine del flessore ulnare del carpo ha probabilmente sovvertito gli albi d’oro degli ultimi sei anni, cioè dal primo intervento chirurgico del 2010. Ne sono seguiti altri due, l’ultimo nel 2015 che pareva davvero quello definitivo. Ma non per la guarigione, quanto piuttosto per la resa: «Pensavo seriamente di non poter più giocare, me ne stavo triste sul divano di casa e non guardavo nemmeno le partite in tv, troppo triste». E invece Delpo si è piegato ma non si è spezzato tra mille ricadute e complicate rinascite, e con fatica è riapparso sul circuito, ricostruendo passo dopo passo le certezze tecniche e mentali che lo avevano portato al numero 4 del mondo (ora è 165). Finalmente, alla 19a partita stagionale e dopo aver saltato Parigi per continuare a curare il polso maledetto, Wimbledon gli restituisce il sorriso dei tempi belli, e non certo per il successo pronosticato contro il francese Robert: «Va meglio settimana dopo settimana, ora mi alzo al mattino e so di potermi allenare senza problemi, senza pensare ai trattamenti, ai dottori, agli infortuni. E’ molto importante per la mia testa. Adesso sono libero».
Intanto, scelto Vallverdu come coach temporaneo («Prima dovevo pensare solo a guarire»), torna a vincere una partita in uno Slam dal gennaio 2014 (Australia) e, a Church Road, addirittura dalla semifinale epica dell’anno prima contro Djokovic: «Che grandi sensazioni ho recuperato, stavolta è completamente differente, sono tornato ad apprezzare il tennis». Certo, le manomissioni forzate al polso si riverberano soprattutto sul rovescio, che adesso Del Potro gioca molto in back staccando appunto la sinistra, che invece prima garantiva l’ultimo colpo di frusta. Il taglio all’indietro comporta dover coprire più campo e quindi muoversi di più lateralmente, una prospettiva non semplice per chi tocca il metro e 98. Eppure Juan Martin adesso vuol dire fiducia, tanto che sarà pure in Davis contro di noi a metà luglio: «Servizio e dritto funzionano bene, ovviamente mi serve più confidenza con il rovescio. Però mi aspetto di fare un grande match contro Wawrinka». Già, un 2 turno tra 2 vincitori Slam e un test capitale per entrambi. Perché Stanimal non sta vivendo una stagione di lustrini e paillettes e pure con Fritz si concede il rischioso vezzo di buttare via con almeno tre sciocchezze inspiegabili il tie break del terzo set, allungando inutilmente la sfida (…)
———————————————–
La grinta della nuova Vinci, analista di se stessa (Gianni Clerici, La Repubblica)
Ho assistito, nella mia lunga vita di spettatore, a molte partite di Robertina Vinci. Di lei mi aveva sempre attratto, oltre beninteso alla femminilità, l’eleganza dei gesti, quello che si usa chiamare stile. Uno stile via via scomparso nel tennis femminile, ora basato, soprattutto sul rovescio, sulla presa bimane, che i Maestri di cinquant’anni addietro consigliavano alle bambine, .con il polso troppo delicato per colpire una palla di quasi 60 grammi. Robertina, come sempre mi sono permesso di chiamarla, aveva imparato, nella sua nativa ed eccentrica Taranto, ad affidarsi al movimento più ovvio, quello della nonna e della mamma. Ne era uscito uno splendido gesto che, guarda caso, era ideale sulle aiole, quelle stesse che al suo paese servono, nel migliore dei casi, per piantarvi i fiori. Insieme a quell’elegantissimo gesto, la Vinci pareva aver sviluppato una antifrasi del proprio nome. Giocava spesso meglio dell’avversa ria, ma ne veniva, alla fine, sconfitta. Nel 2008, qui a Wimbledon, era riuscita a non battere nella qualificazioni tale Kristina Barrois. Giunta a migliore classifica, mi aveva insieme affascinato e deluso due anni fa, perdendo da Donna Vekic, nota quale amante di Wawrinka, allora n.87 del mondo. L’anno scorso era riuscita a ripetersi contro Alexandra Krunic, anche quella sopra le 80. Era poi giunta l’illuminazione, o forse il miracolo, della vittoriosa vicenda con Serena, che l’ha condotta con l’amica Flavia alla finale dello US Open.
Robertina giocava oggi un primo turno contro una poco conosciuta americana, Alison Riske, n. 80, che aveva, tra le sue qualità, quella di esser stata scelta da uno specialista dell’eleganza, yeso Maties, agente della Lotto, che non sbaglia quasi mai le sue scelte. Mi sarei dunque recato sul campo n.3, chiamato per i suoi fulminanti decessi sportivi il Sepolcro dei Campioni, fiducioso di assistere ad una rapida vittoria della Nuova Robertina. Con le sue prime esterne, i suoi rovesci tagliati, la palla soffocata spesso seguita da volleine sapienti,Vinci bruciava il primo set, si avvicinava al 5-2 nel secondo, ma, d’improvviso, sembrava vittima dell’incertezza Incattivita in genuflessioni virili sul rovescio, dirittoni e battutacce, l’americana prende va a comandare, rapiva il secondo set, in un attimo saliva a 3 a 1 al terzo. Siamo di nuovo alla Vinci che perde?, mi accadeva di domandare al mio vicino, l’aficionado Roberto Bortolozzi..Chissà cosa scriverà la Riske sul suo diario, che si porta addirittura in campo., mi rispondeva quello spettatore professionista. Mi veniva allora da domandarmi quanti diari sono rimasti ignoti, in confronto all’esiguo numero di quelli degni di pubblicazione. Non so se questo pensiero avesse a che fare con l’improvvisa reazione della Nuova Vinci. In pochi minuti eccola tornare all’attacco, di nuovo capace di servizi e volée vincenti (…)
——————————————–
La volta buona di Roberta Vinci (Claudio Giua, repubblica.it)
Il servizio meteo degli Championships l’aveva previsto: verso le 16.30 pioverà. Alle 16.25 su tutti i campi gli addetti al manto erboso e i raccattapelle sono già eccitati, pronti a scattare alle prime gocce per sganciare e arrotolare la rete, sollevare e trasportare lontano i pali, stendere gli enormi teli grigioverdi che dopo poco si gonfiano d’aria calda sparata da ignote tubature che m’immagino provenire da un vetusto opificio stile Metropolis. All’ora annunciata si aprono i primi ombrelli. Il giudice arbitro del campo numero 3, dove Dominic Thiem e Florian Mayer sono al quarto game, tergiversa un po’, poi s’arrende e manda i due e il pubblico a sorbire caressianamente un tè caldo. Lo stesso, immagino, accade negli altri stadi.
Martedì d’ordinaria umidità londinese. La pioggia non tradisce mai, mica come gli inglesi e i gallesi che nel segreto dell’urna scelgono d’andarsene dall’Europa che li infastidiva con i suoi petulanti polacchi e rampanti italiani (che sono quasi trecentomila solo nella Greater London) e scatenano una grandinata dantesca in un giorno che doveva essere di sole pieno. Il torneo prosegue sulla Centre Court, coperta, dove s’affrontano la russa Svetlana Kuznetsova e la danese Caroline Wozniacki.
Prima della pioggia, però, lo spettacolo non è mancato. Ha esordito Andy Murray, allenato per tre set da Liam Broady (6-2 6-3 6-4) in un match tutto britannico sulla Centre Court, storico in quanto inedito nell’era moderna. Stan Wawrinka ha ridimensionato qualsiasi velleità dell’emergente americanino Taylor Fritz, che s’è preso tuttavia il terzo set al tie break (7-6 6-1 6-7 6-4). Nick Kyrgios, che in all white appare un giocatore quasi normale, ha superato in quattro set l’ostico veterano Radek Stepanek (6-4 6-3 6-7 6-1). E’ cominciata la corsa, attesissima, dell’erbivoro rasta tedesco Dustin Brown che ha eliminato Dusan Lajovic per 4-6 6-3 3-6 6-3 6-4: ben 47 game in due ore e 7 minuti, peccato non averlo visto. Serena Williams, s’è divertita con la sorprendente svizzera di origine macedone Amra Sadikovic (6-2 6-4), felice d’aver avuto l’opportunità d’affrontare sulla Centre Court il mito giocante del tennis femminile.
Poi tocca a lei, la finalista con Flavia Pennetta degli UsOpen 2015, scendere sul campo numero 2 degli Championships. Come tutti, tendo a dimenticarmi che Roberta Vinci è la numero 7 al mondo, che significa precedere nel ranking WTA Venus Williams, Madison Keys, Petra Kvitova, Carla Suarez Navarro, Belinda Bencic e Johanna Konta, per citare alcune delle Top 20. Dimenticandolo, diventa ancora più gratificante vederla lottare, soffrire e vincere in due ore e due minuti giusto prima che la pioggia interrompa tutti i match. Rema, sbuffa e urla parecchio per mettere sotto la spigolosa Alison Riske, 26 anni, WTA 80, indecisa tra un tennis d’attacco e uno di difesa così com’è indecisa tra le ciminiere di Pittsburgh, dov’è nata, e i ritmi country di Nashville, dove abita. Una partita da manuale psicologico. Avanti per 6-4 4-2 la tarantina riesce, come diretta conseguenza di un paio di colpi sbagliati sotto rete, che di solito chiude magistralmente, a farsi raggiungere e a cedere il set per 5-7. Subito dopo si trova a rincorrere l’americana, in fuga nel terzo set. Ma a 33 anni la tarantina sa come fare per ritrovare la sicurezza quando altri alzerebbero le braccia, finalmente arresi. Roberta stringe i denti e si rifà sotto a furia di rovesci in back e precisi lungolinea e grazie a un servizio spesso imprendibile. Dopo aver sprecato quattro match point, alla quinta occasione riesce a costringere l’avversaria all’errore di rovescio. Una prova convincente. Vinci ha bisogno di riassaporare le emozioni di Flushing Meadows, di trovare gli stimoli che la portino ad affrontare ogni ostacolo, come accadde con Serena Williams (…)
———————————————-
A Wimbledon si scherza sul disastro inglese: “Perso da un supermercato” (Stefano Semeraro, La Stampa)
A Wimbledon comanda il Committee, il Comitato, nel quale, a dispetto di oltre un secolo consacrato al silenzio e alla celebrazione del mito british, da sempre circola liberamente il sarcasmo. Anche sulla Double Brexit, dall’Europa e dagli Europei. «L’Inghilterra ha votato per uscire da un Grande Mercato – sogghignavano ieri i member -, ma ha finito per perdere da un supermercato». L’allusione alla figuraccia della banda Hodgson contro l’Islanda, un Paese meno popolato di un outlet, è evidente. Del resto il sense of humor da queste parti è una religione (Churchill docet) e nessuno si sognerebbe di dire qualcosa ai tanti, stranieri compresi, che la sera prendono posto nella Queue, la mitica coda dove ci si guadagna un posto sul Centre Court, con addosso magliette e cappellini trapunti di stelline gialle su fondo blu. Tra humour e self control «Gli inglesi sono bravissimi a mantenere la calma e andare avanti (keep calm and carry on) – allarga le braccia una turista americana -, credo che lo faranno anche stavolta».
E pazienza se si tratta di sopportare, oltre ai lazzi di un continente, anche l’esultanza da curva dei giornalisti italiani durante il match con la Spagna. «Non dovete scusarvi – concede sovrana Denyse, capo-ufficio stampa dell’All England Club -. È stato divertente. Piuttosto siamo noi che abbiamo poco da sorridere. Wimbledon è un microcosmo molto upper class, benestante e raziocinante. Qui pochi prevedevano il «leave» e ci sono rimasti educatamente malissimo («my God, adesso cosa penserete di noi…»), guai però fare un dramma del tracollo sportivo. «Dove alloggio io hanno spento la televisione dicendo che, rispetto alla Brexit vera, quella del calcio è poca roba», racconta Luisanna Fodde, l’italiana che da decenni fa parte dello staff dei Championships.
Anche Andy Murray, che peraltro è scozzese, l’ha presa con filosofia: «Peccato, ma è lo sport. Credo che alla fine il vincitore uscirà dal match tra Italia e Germania». Queste rimangono le due settimane consacrate al tennis, al fascino di una tradizione che le frontiere non le soffre semplicemente perché le annulla. «E sempre un peccato quando perde la Nazionale – spiega Johnny Perkins, portavoce del Club -. Ma a Wimbledon da 130 anni cerchiamo di guardare le cose in prospettiva, e con humour. Tutti poi conoscono i versi di Kipling incisi sopra gli spogliatoi: «Se saprai trattare Trionfo e Disastro, questi due impostori, alla stessa maniera – …allora sarai un Uomo, come recita la celebre poesia If -. I nostri campioni vengono da posti diversi, il Torneo è la riunione estiva di una grande famiglia che si ripete anno dopo anno. Non cambierà (…)