Sopra di lei nella classifica delle vincitrici Slam all time, al netto delle tenniste ancora in attività, tutte erano già state inserite nella Hall of Fame di Newport; Maria Bueno ed Evonne Goolagong, come lei sette volte campionesse Slam, avevano ricevuto l’onore rispettivamente nel 1978 e nel 1988. Era quindi facile immaginare che allo scoccare del quinto anno di inattività arrivasse puntuale anche per Justine Henin la notizia dell’ingresso nel club dell’immortalità tennistica, in compagnia del folle estro di Marat Safin. La cerimonia ufficiale si svolgerà domani al termine delle semifinali del torneo statunitense e a presentarla saranno i padroni di casa Monica Seles e Jimmy Connors, che introdurranno rispettivamente Henin e l’ex campione russo.
Sportivamente parlando poco più di una formalità: la tennista vallona era già ampiamente entrata nella storia del tennis femminile con le quattro affermazioni al Roland Garros, la meravigliosa stagione 2007, l’oro olimpico di Atene e anche con le due finali perse a Wimbledon che a conti fatti le hanno impedito di portare a casa un Career Golden Slam che avrebbe senz’altro meritato, pur ammettendo lo status di “ossessione per statistici” (fino a un mese l’ossessione era anche di Djokovic) che questo traguardo ha ormai assunto.
Di Justine però non sono i numeri a essere più esemplificativi. Sebbene i 43 titoli e le 3 stagioni (2003, 2006 e 2007) concluse sul gradino più alto del ranking siano storie che pochi nipotini avranno la fortuna di ascoltare, la vera grandezza dell’ex tennista belga risiede in come sia riuscita a ottenere questi straordinari risultati. Partiamo dagli appena 57 kg che hanno appesantito i 167 cm di altezza: una struttura fisica che non le ha impedito di sviluppare un servizio di primissimo livello, seconda – a volta anche troppo aggressiva – compresa, con buona pace di chi crede che si possa fare degli ace un’arma soltanto dal metro e settanta in su. In campo la Henin era assolutamente piccola, aveva le movenze di una ragazzina frenetica e la tenacia di chi non crede alla favola che certi punti siano più importanti di altri e nel dubbio li gioca tutti fino in fondo. La generosità con la quale ha ribaltato centinaia di scambi persi affiancava idealmente il suo nome in ogni tabellone, eppure non dice ancora tutto di lei.
Justine Henin-Hardenne da Liegi ha fatto crescere i suoi successi all’ombra di un talento tennistico assolutamente unico che parte da un rovescio a una mano di bellezza totale, transita per un diritto che ha saputo migliorare fino a renderlo colpo d’attacco puro e si accascia su un gioco di rete a volte regale, sullo sfondo di una visione tattica incredibilmente lucida. Spesso sono gli addetti ai lavori a solcare in modo più incisivo il passo delle imprese sportive dei loro colleghi e infatti Martina Navratilova un giorno s’arrischiò a definire Justine “la Federer in gonnella“. Per alcuni affermazione eccessiva, ma inconsapevolmente avallata delle parole della diretta interessata poco dopo il suo ritiro nel caldo di Melbourne cinque edizioni fa: “Mi mancherà quella sensazione di libertà che provavo quando mettevo la pallina dove volevo”. Tre imperfetti in una frase che invece fotografa alla perfezione il tennis della Henin, oltre a lasciar trapelare gli spigoli di un carattere difficile che in carriera le ha procurato più di qualche critica.
Justine non è stata soltanto la prima a ribellarsi allo strapotere fisico di Serena battendola ben 6 volte, esattamente quanto Azarenka e Sharapova abbiano saputo fare nel sommarsi delle loro attuali carriere, ma è stata soprattutto l’espressione di un tennis che elimina del tutto il filtro tra mente e racchetta. Se una traiettoria era pensabile, allora era anche riproducibile. Ci sono state campionesse più vincenti e più dominanti, ma nessuna come la belga ha saputo rendere vincente un tennis così “necessario”. Il fatto che fosse anche estremamente piacevole da vedere arriva dopo, è quasi un effetto collaterale che si genera quando un talento tanto grande nasce in un corpicino che parrebbe così inadatto a metterlo in pratica e invece trova il modo d’esprimersi, impetuoso. Del resto solo una dote tennistica fuori dal comune poteva portare uno scricciolo di 167 cm a trionfare quattro volte sullo Chatrier, nello Slam più complicato da vincere sotto il profilo atletico. Quello in cui “ci si deve portare il pranzo da casa, e a volte anche la cena”.
La belga però ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto. E’ opinione comune che diventa dato di fatto se si analizza l’età del suo ritiro, a soli 29 anni (2 in più di Borg, per citare un altro che abbandonò la racchetta troppo presto), e l’età della sua ultima vittoria in uno Slam, 25 anni: nel 2007 Justine gioca per diversi mesi su una nuvola, inarrivabile, vince 10 tornei tra cui Parigi, New York e le Finals – al termine di una splendida finale contro Sharapova – poi mette il motore in folle. Da allora vincerà soltanto 4 tornei, il più prestigioso dei quali a Stoccarda, intervallati dalla decisione di un primo ritiro nel 2008 – poi revocata nel 2010 – e dal ritiro definitivo nel 2011 per un guaio al gomito, ultimo di una serie di infortuni apparentemente decisivi per la chiusura prematura della sua carriera.
Si è trattato davvero solo di una questione fisica? Difficile crederlo se analizziamo il suo 2007, stagione piena di sconvolgimenti emotivi per Justine: al tormentato divorzio che la costringe a saltare i tornei australiani di gennaio – e perdere la prima posizione del ranking – segue la grande rinascita sportiva di cui sopra e in contemporanea il ritiro dell’amica-rivale Kim Clijsters, assieme alla quale aveva vinto nel 2001 la finora unica Fed Cup della storia del Belgio. Il motivo per cui il ritiro della rivale nata nelle Fiandre possa essersi tradotto in un boomerang negativo per lei è rintracciabile nel suo passato, segnato soprattutto dalla prematura scomparsa della mamma. In quegli anni difficili Justine consolida la sua vocazione sportiva, conosce e si batte sul campo con la giovane Kim e in qualche modo lega la sua vita sportiva a quella della sua conterranea. Quando infatti Clijsters deciderà di ritornare in campo nel 2009, Henin – che nel frattempo aveva emulato il ritiro provvisorio della fiamminga – farà lo stesso, senza però riuscire a ritrovare il tennis incomparabile dei suoi primi anni di carriera. Kim invece aggiungerà 3 Slam al suo palmares e batterà Justine in tutte e tre le sfide post-2007, dimostrando una rinnovata superiorità. Il secondo tempo della rivalità è quindi di marca fiamminga, mentre la vallona aveva vinto 8 dei precedenti 11 incontri (13-12 Clijsters il bilancio finale).
In una carriera così poco lineare come quella di Justine questa è solo una delle possibili interpretazioni: sicuramente hanno influito la sua indole solitaria, l’ostracismo delle sue colleghe che mal digerivano alcuni suoi comportamenti (su tutti l’episodio del ritiro nella finale degli Australian Open 2006 quando la Mauresmo era in netto controllo del match), perché no la difficoltà di continuare a conciliare il suo tennis geniale ed esplosivo con un fisico minuto e non sempre pronto a sostenerla, come già si è detto. Justine Henin è stata tennista estremamente caparbia eppure fragile, dotata ogni oltre limite eppure mai donna-copertina, forse poco “protetta” al cospetto di un talento che avrebbe meritato di essere onorato per qualche anno in più. Adesso ha riscoperto una nuova carriera su due fronti, allenatrice sul campo per la Svitolina e mentore per i migliori talenti del Belgio nell’accademia a lei intitolata in quel di Limelette. Dove magari la sua erede sta ora imparando a colpire il rovescio.