“Y ya lo ve, y ya lo ve, somos locales otra vez”. Guardate, guardate, siamo padroni di casa anche stavolta. Cantano ancora, e ballano, quel centinaio di scalmanati arrivati fino a Pesaro per seguire la selezione albiceleste. È passata già quasi mezz’ora da quando un lob di Delbonis ha portato il punto decisivo all’Argentina, ma il loro entusiasmo non si ferma: a casa loro la Davis è un credo. Quattro volte finalisti (1981, 2006, 2008, 2011) eppure ancora mai vincitori, quattro volte beffati eppure incapaci di rassegnarsi, i ragazzi e le ragazze e gli uomini e le donne e i padri e i figli della hinchada coinvolgono nel coro infinito anche i giocatori, che da loro hanno tratto sostegno per tutto il fine settimana. E che a loro hanno fatto appello nei momenti di difficoltà. Come quando allo stesso Delbonis è mancato il killer instinct, ma prima un Seppi malconcio, poi un Fognini cotto dalle nove ore di tennis in meno di un giorno e mezzo lo hanno graziato, mancando due rimonte possibili. O come quando Pella e del Potro sono stati a un passo dal perdere, in un doppio nel quale si erano trovati in vantaggio per due set a zero.
Il succo di questo tie marchigiano tra Italia e Argentina è che gli ospiti guidati da Daniel Orsanic hanno perso il match che non potevano fare altro che perdere, e hanno vinto gli altri tre che avremmo potuto vincere anche noi. Quando Juan Monaco è stato massacrato da Fognini, che sembrava giocare un tennis di due o tre livelli superiore, si è giustificato dicendo di aver giocato al 30%. Messo a conoscenza della cosa, il ligure ha replicato: “c… suoi!” Giusto, sacrosanto. Però allora è giusto e sacrosanto che non si trovino scusanti neppure da questa parte della barricata, che significa anche essere obiettivi sulle reali possibilità che da padroni di casa avevamo di superare questo quarto di finale. Troppo spesso si cade nella contraddittoria tentazione di additare gli azzurri sconfitti come perdenti nati, mentre allo stesso tempo ci si lamenta, come stupiti del risultato negativo.
La verità, come spesso capita, sta nel mezzo: il numero uno Fognini è un tennista che sa essere ottimo e pessimo, non di rado persino nell’arco dello stesso incontro. La media dei suoi alti e bassi farebbe di lui un buon giocatore ma questa media non si vede quasi mai: o è tutto o è il contrario di tutto (cioè niente). La maglia azzurra però sembra attenuare i suoi difetti, mutando quegli atteggiamenti autodistruttivi che lo isolano dal mondo in pretesti per coinvolgere il pubblico. Con la scritta “Italia” sulla schiena, Fabio spesso gioca le sue migliori partite. Se lo spirito di squadra lo migliora, poi però una squadra attorno ci deve essere: al contrario, dopo la non impensabile sconfitta di Seppi nel primo incontro la qualificazione poggiava per intero sulle sue spalle. È vero, lo scorso anno Andy Murray riuscì a vincere la Coppa Davis praticamente da solo, ma è un’impresa per pochissimi e anche quei pochissimi difficilmente riuscirebbero a portarla a termine con certezza: lo stesso Roger Federer ebbe bisogno di uno Stan Wawrinka finalmente ad alto livello, per sollevare infine il trofeo a forma di torta.
A far da scudiero al talento di Fognini avrebbe dovuto essere Andreas Seppi, professione bravo ragazzo. Tra schiena, anca, gamba, polso, età e difficoltà a cambiare superficie, tuttavia, l’altoatesino non è riuscito a dimostrare la sua affidabilità, l’altra faccia più rassicurante della medaglia dell’ItalDavis. Un passo indietro ai due c’era Paolo Lorenzi, il cui grande cuore strappa sempre applausi sinceri, ma non può bastare a compensare il divario tecnico che lo separa da molti degli avversari. Il quartetto era completato da Marco Cecchinato. Il ragazzo di Palermo però ha disputato un solo match di Coppa Davis in carriera, che peraltro non contava nulla. La sua convocazione serviva più a far gruppo che altro, e una sua presenza in campo non era molto di più che un “piano zeta”. La presenza di Simone Bolelli, appena uscito da sotto i ferri, accentuava l’impressione che i tre attorno a Fognini fossero più tifosi che veri alleati. La scelta della terra battuta, superficie preferita da lui oltre che dagli argentini, la confermava.
Costretto dal maltempo a vincere nel minor tempo possibile il singolare, per mantenersi abbastanza fresco da trascinare un compagno di doppio insicuro, Fabio alla fine non ce l’ha fatta a tenere tutto in piedi da solo. La sua stanchezza come l’assenza di Bolelli, l’infortunio di Seppi come la paura di Lorenzi, e poi la pioggia… se sulla carta l’Italia aveva pressoché le stesse possibilità dell’Argentina di aggiudicarsi il confronto, nel corso del weekend queste si sono a poco a poco assottigliate, diciamo fino al 30%. A dirlo ai vincitori, che cantano e ballano ancora, ci risponderebbero per le rime: “c…i vostri”. Nel bene e nel male, è giusto così.