Nella tarda mattinata del 13 settembre 2009, su un campo secondario del Los Angeles Tennis Club, due giocatori stanno tirando gli ultimi colpi. L’uomo ha passato gli ottanta ma è ancora in splendida forma, usa una vecchia Wilson in legno ornata da una corona, colpisce piatto e pulito. La ragazza è una teen-ager alta e snella, tutta rotazioni, grinta e grugniti. Poco dopo i due sono comodamente seduti nella club-house bevendo qualcosa mentre sullo schermo televisivo Rafa Nadal e Juan Martin del Potro stanno combattendo per raggiungere la finale degli US Open. Ad un certo punto Cliff Drysdale interrompe la telecronaca del match per annunciare che Jack Kramer è morto ad 88 anni nella sua casa californiana di Bel Air. Un’ombra vela i limpidi occhi azzurri del nonno e la ragazza se ne accorge subito. Hanno sempre avuto un legame forte ed è stato proprio lui ad instillarle fin dalla culla l’amore per il tennis con le sue storie sui più grandi campioni e le loro mirabolanti imprese in un mondo che fu. “Che c’è nonno, non ti senti bene?” chiede preoccupata. Quando l’uomo risponde il tono della voce non riesce a celare completamente la tristezza. “Non è nulla tesoro, è solo che da ragazzo lo conoscevo di vista…” e poi ancora “vedi questa corona sulla mia racchetta? Lui era il Re”. “E com’è che non me ne hai mai parlato?”. “È una storia lunghissima e complessa, che attraversa tutto il ‘900. Vinse poco perché c’era la Seconda Guerra Mondiale di mezzo e quando passò professionista divenne una specie di spettro, un nemico da combattere. E tu eri troppo piccola per capire concetti come l’ipocrisia o il cinismo”. “Bé, ora sono cresciuta abbastanza credo…”. “Se è questo che vuoi, mettiti comoda e ordina un altro drink.
Allora…
A quel tempo credevo ancora di poter diventare un campione, passavo tutti i miei pomeriggi proprio qui a colpir palline di feltro e si vedeva già che Jack, di qualche anno più grande di me, sarebbe diventato il più forte di tutti. Non era californiano. Albert John Kramer era nato a Las Vegas il primo agosto del 1921, sotto il segno del leone, ben prima che Bugsy Siegel aprisse il “Flamingo” in città, e per certo aveva forza e carisma da re della foresta. Un padre mantiene cento figli ma cento figli non mantengono un padre. Ebbene, in questa storia il padre è una figura chiave. Iniziò a lavorare ad undici anni per la Union Pacific Railroad, era uno del “calling crew”, il gruppo di ragazzini che svegliavano gli operai all’alba per il primo turno del mattino. “L’ho visto faticare tutta la vita senza chiedere mai nulla” ricorda Jack. Diventato padre faceva turni che gli consentivano di restare a casa circa due giorni su quattro per dedicarsi ai figli. Nel 1929 la Grande Depressione colpisce forte le finanze familiari e l’angoscia di quel periodo in California è ben visibile attraverso gli occhi di George e Lenny, i protagonisti del romanzo “Uomini e topi” di John Steinbeck. Jack fa risalire ad allora l’insicurezza economica che lo spingerà da adulto a girare sempre con le tasche piene di dollari. Ma il padre non si lamenta, crede nell’etica e mantiene la rotta. Una volta il giovanissimo Jack perde le staffe in torneo e getta via la racchetta che malauguratamente colpisce la recinzione e rimbalza fra il pubblico. David Christan Kramer scende dalla tribuna con calma, parla con il giudice arbitro e ottiene la squalifica del figlio. “Apri bene le orecchie pallone gonfiato, fai un’altra stronzata del genere e non toccherai più una racchetta fin quando vivrai nella mia casa, intesi?” Jack impara una lezione. Si ritirerà molti anni dopo dal suo unico posto di lavoro con la qualifica di senior engineer. Un giorno riceve un aumento della pensione ma scrive all’ente preposto sostenendo di non averne diritto.
Il futuro campione pratica ogni sport conosciuto e va matto per il baseball. C’è chi giura che avrebbe potuto giocare da professionista nella Major League. E aveva coraggio, a sette anni, nel corso di una partita di football, placca un ragazzo più grande di lui e si frattura il naso. Il tennis all’inizio non è che uno dei tanti cimenti con papà e fratelli, neanche il preferito. Anche perché al tempo era comune considerarlo un “sissy game”, un gioco per signorine. Ma Jack ha talento nel colpire una palla, una testa analitica e umiltà per imparare. Si vede che diventerà alto e forte e un giorno sceglie. Il padre accetta una decurtazione di paga pur di rimanere in California, a San Bernardino, dove le condizioni sono ideali per le ambizioni sportive del piccolo John. Nel febbraio del 1935 porta il figlio nella contea di Pomona, distante una trentina di miglia, perché i professionisti sono arrivati in città. Al Country Fairgrounds, in piena campagna, su un campo da tennis allestito in fretta nei pressi di un circuito automobilistico, il tredicenne Kramer – “…a poor kid from the desert” – vede per la prima volta il suo eroe. C’è l’eterno Bill Tilden, ci sono Lester Stoefen con il suo mortale servizio e George Lott, gran doppista e nemico dello stesso Tilden. “Tillie”, lo chiamava. Ma Jack non ha occhi per loro. Nel suo metro e ottantanove di potenza elegante, una figura candida lo strega per sempre. Ellsworth Vines “…era vestito come Fred Astaire e colpiva la palla come Babe Ruth”, in totale decontrazione e scioltezza. In quel preciso istante il tennis diventa per Jack il solo sport al mondo e la mazza da baseball finisce in soffitta a far da cibo per i tarli. Vines aveva squassato il gioco all’inizio degli anni ’30. Proveniva dai campi in cemento californiani e se la gioca per un posto fra i migliori di sempre. Dritto, servizio e smash non si prendevano. Vinse gli US Open 1931 non ancora ventenne e l’anno dopo si confermò aggiungendo la corona di Wimbledon. Nella finale di Londra polverizza 6-4 6-2 6-0 l’inglese Bunny Austin, il primo ad indossare i calzoncini corti. Sul match point spara una prima così potente che l’altro non capisce da quale parte sia passata la palla. A ventitré anni diventò professionista e a trenta lasciò il tennis per il golf.
Nell’aprile dello stesso anno arriva il giorno del primo torneo. Tutti sfoggiano perfetti completi bianchi stirati e almeno tre racchette. Jack si sente fuori posto con addosso una dozzinale felpa marrone e la fida, e unica, Spalding modello Tilden Topflite stretta al petto. A quello sconosciuto torneo partecipano anche Bobby Riggs, Joe Hunt e Ted Schroeder, nove futuri titoli Slam, sei US Open e tre Wimbledon. È una disfatta, fuori al primo turno. L’anno dopo vincerà. Il padre per la prima volta prende accordi con un vero allenatore. Si tratta di Dick Skeen, uno dei migliori per impostare i fondamentali a sentire Tilden, texano di Dallas classe 1906, ex professionista di fama con nomea da duro che insegnava il gioco sia a campioni che a star del cinema come Gary Cooper, Cary Grant o Kirk Douglas. Era un uomo aspro e spigoloso che ancora dopo cinquant’anni, se Jack si scordava di citarlo in un’intervista telefonava al padre per lamentarsi della cosa. “Ma era quel che ci voleva per me allora, mi insegnò a controllare la palla con lo spin e il valore estremo della concentrazione”. Un giorno Jack rifiuta un compagno di doppio proposto dal coach e viene cacciato. Ma la farfalla ha sbattuto le ali e l’uragano è in arrivo. Come d’incanto l’acerbo Kramer trova la sua via. Il gran capo del tennis californiano Perry Jones era un uomo formale, a volte parruccone ma corretto. Voleva solo bravi ragazzi ben educati per il suo programma e su tali basi aveva respinto il giovane ribelle Bobby Riggs e lo stesso farà qualche anno dopo non riuscendo a scorgere “Big Pancho” in un ragazzo messicano di nome Ricardo Gonzales. Malgrado queste topiche, nella prima metà del ‘900 il dirigente fa della California l’ombelico del tennis USA e del Los Angeles Club la fucina di tutti i futuri campioni statunitensi. Sui campi duri della metropoli californiana i giovani virgulti possono competere tra loro senza sosta e, quando capita, scambiare due colpi con i campioni del mondo Tilden, Vines, Budge e Riggs. Jack su quei campi spenderà la miglior parte della sua adolescenza.
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