I temi del torneo olimpico sono stati tanti. Per rimanere nello spazio di un articolo ho deciso di concentrarmi sulle quattro semifinaliste.
Madison Keys
A Rio ha confermato la sua attuale difficoltà ad affrontare le partite decisive. Nella finale per la medaglia di bronzo contro Petra Kvitova è apparsa più tesa e nervosa rispetto al solito: si è lamentata diverse volte del pubblico che non prendeva posto in tempo sulle tribune, e ha compiuto ripetutamente gesti di stizza sui propri errori, uno dei quali le è anche costato un warning per “racquet abuse”.
Nel primo set non è riuscita a convertire due set point (sul 5-4 15-40 servizio Kvitova), e da quel momento ha subito un parziale negativo di 3 punti a 12 che le è costato il 5-7. Ha poi controllato abbastanza agevolmente il secondo set, ma è calata drasticamente nel terzo (7-5, 2-6, 6-2 il risultato finale). A mio avviso complessivamente ha pagato la minore lucidità rispetto a Kvitova sui punti importanti, non riuscendo a scegliere sempre al meglio le direzioni nello scambio e in battuta: eppure Madison al servizio dispone della botta potente, dello slice e soprattutto di un kick di altissima qualità; avrebbe quindi tutti i mezzi per fare la differenza sin dal primo colpo.
A sua scusante bisogna ricordare che è stata un po’ penalizzata dagli organizzatori: impegnata contro Kerber in semifinale al venerdì sera, è dovuta tornare subito in campo come prima del sabato contro Kvitova, che invece il giorno precedente era stata programmata a mezzogiorno. Penso che nei grandi eventi si dovrebbero definire gli orari delle partite cercando di mettere tutte le protagoniste nelle condizioni di maggiore equità possibile.
Alle Olimpiadi contano le medaglie e dunque il quarto posto è un piazzamento deludente. Questo se valutiamo il rendimento esclusivamente in chiave olimpica; se però facciamo un ragionamento in chiave WTA, bisogna riconoscere che ancora una volta ha saputo arrivare in fondo a un torneo, confermando una fase di continuità ad alti livelli inedita per lei, e in generale piuttosto rara per le giovani giocatrici.
Petra Kvitova
Sul valore del torneo olimpico di tennis le valutazioni sono differenti. Petra Kvitova aveva invece una opinione molto netta: per lei Rio 2016 era l’appuntamento più importante della stagione. Intervistata prima di Wimbledon ha dichiarato che, potendo scegliere, avrebbe preferito vincere le Olimpiadi rispetto a qualsiasi torneo dello Slam (QUI dal min. 1’55” in poi).
Per quanto mi riguarda proprio non riesco a essere d’accordo, ma naturalmente la mia opinione conta zero. Conta invece il fatto che Kvitova si era scelta un obiettivo quasi impossibile: come è noto Petra fatica molto con le alte temperature e ama campi rapidi, e invece si è trovata ad affrontare un impegno nel caldo brasiliano e con condizioni di gioco più lente del solito.
Si è capito molto chiaramente quanto ci tenesse in occasione del match contro Makarova: in una giornata afosa, ha perso 6-4 il primo set e in quel momento ha dato l’impressione di essere già in difficoltà sul piano fisico. Eppure ha tenuto duro per altri due set, con una “tigna” e una abnegazione sorprendenti, finendo per spuntarla dopo 2 ore e 41 minuti.
Dopo quello sforzo pareva quasi spacciata, visto che le si prospettava subito dopo il confronto con Serena Williams. Invece in serata di quello stesso giorno c’è stata la grande sorpresa dell’eliminazione di Serena per mano di Elina Svitolina; poi c’è stato lo stop di ventiquattro ore a causa della pioggia, che non solo ha permesso a Kvitova di recuperare, ma ha anche raffrescato il clima, rendendole il percorso meno proibitivo nei turni successivi.
Contro Madison Keys l’ho trovata molto matura sul piano tattico: nel primo set dopo aver preso atto che sulla diagonale destra (quella del suo rovescio contro il dritto di Keys) finiva per perdere il confronto, ha modificato le abituali geometrie, utilizzando il lungolinea di rovescio con una frequenza per lei insolita. E grazie anche a quella scelta ha vinto il set. Poi nel terzo si è resa conto che Madison soffriva sempre di più sulle risposte di rovescio e con scelte accorte nella direzioni di battuta ha saputo raccogliere diversi punti facili. Punti probabilmente decisivi sul risultato finale.
Di fronte a una delle pochissime avversarie esistenti nel circuito in grado di superarla nel numero di vincenti (24 a 12 per Keys secondo le statistiche, non del tutto affidabili, brasiliane) è riuscita ad avere la meglio soprattutto sul piano mentale: per solidità psicologica sui punti più importanti, e per intelligenza tattica.
Chiudo questo paragrafo con una nota sull’insieme del tennis ceco femminile.
Erano al via cinque giocatrici: Kvitova, Safarova, Strycova, Hlavackova e Hradecka. Kvitova ha vinto il bronzo nel singolare, Safarova e Strycova il bronzo nel doppio, Hradecka il bronzo nel misto (con Stepanek). Doppiamente sfortunata Andrea Hlavackova: unica senza medaglie, in più è tornata da Rio con la frattura dello zigomo sinistro; conseguenza della palla che l’ha colpita al volto in occasione del secondo match point mancato nella semifinale contro la coppia svizzera Bacsinszky/Hingis. Match point che, se convertito, le sarebbe valso almeno la medaglia d’argento (peraltro vinta in doppio a Londra 2012).
Angelique Kerber
Per Kerber la medaglia d’argento è la conferma di un periodo estremamente positivo. E se è vero che ha perso la finale, lo ha fatto comunque giocando bene. Contro un’avversaria ispiratissima come Monica Puig se non avesse mantenuto un ottimo rendimento avrebbe corso il rischio di subire un punteggio molto severo, come era accaduto qualche giorno prima a Garbiñe Muguruza (superata per 6-1, 6-1). Invece ha comunque strappato un set (6-4, 4-6, 6-1) e si è confermata come la giocatrice più costante ai massimi livelli insieme a Serena Williams: cinque finali raggiunte nel 2016, di cui due vinte (Australian Open e Stoccarda) e tre perse (Brisbane, Wimbledon, Olimpiadi). Senza dubbio la migliore stagione della carriera, quella in cui è riuscita a trovare il più efficace equilibrio tra gioco difensivo e contrattacco.
Se il torneo di Rio 2016 avesse distribuito punti WTA (come era accaduto per Londra 2012) avrebbe avuto ancora più possibilità di avvicinarsi al numero uno del ranking, e forse perfino di raggiungerlo. Nel 2015 era stata considerata coma la tennista più spesso protagonista di grandi match: partite lottate e combattute, ricche di scambi spettacolari. Ma quest’anno ha compiuto un fondamentale passo avanti: quasi tutti quei match riesce a vincerli, dimostrando di avere raggiunto la totale maturità come giocatrice.
Monica Puig
Lo hanno già scritto in tanti e non posso fare altro che ribadirlo: Monica Puig ha vinto il torneo mostrando un livello di gioco straordinariamente alto, grazie al quale si è fatta strada in un tabellone che prevedeva come ostacoli tre vincitrici Slam (Muguruza, Kvitova, Kerber).
Medaglia d’oro a 17 anni ai Giochi centroamericani e caraibici del 2010, medaglia d’argento ai Giochi panamericani del 2011 a soli 18 anni (dopo aver sconfitto Christina McHale in semifinale, la stessa McHale che qualche settimana prima aveva battuto la numero 1 del mondo Wozniacki), medaglia di bronzo nell’edizione successiva del 2015. Risultati che dimostrano quanto renda in occasione degli impegni in cui gioca per Portorico e quanto tenga alle sue origini. Ecco come ha parlato di Portorico al termine della finale persa a Sydney quest’anno:
In semifinale contro Kvitova ha saputo prevalere in parte snaturando il proprio tennis: di fronte a un’avversaria in grado di produrre più vincenti di lei, ha accettato di soffrire, contenendo nella prima fase del palleggio (grazie a difficili colpi effettuati di controbalzo, per non perdere campo) per poi riprendere l’iniziativa appena si presentava l’occasione. E ha risposto benissimo: per non dare angoli facili a Kvitova ha scelto parabole verso il centro, ma con una profondità tale da impedire a Petra di cercare il vincente immediato. Logico e semplice in teoria, ma estremamente difficile da mettere in pratica: invece Puig ha saputo effettuare risposte centrali e profondissime in serie; molto raramente ho visto una tale costanza di rendimento su un colpo tanto difficile.
Ispiratissima anche nelle esecuzioni più impegnative, è stata quasi sempre in grado di avere la soluzione giusta a tutti i problemi che le proponevano le avversarie. Dopo Kvitova, in finale ha trovato un’altra mancina, Angelique Kerber. E Kerber, per evitare di venire sopraffatta dall’aggressività di Puig, ha cercato di limitarla insistendo sulla diagonale sinistra (dritto incrociato contro rovescio incrociato di Puig) con l’obiettivo di allungare il più possibile il palleggio; di fronte a questa situazione, quasi subito Monica ha avuto il coraggio di uscire dall’impasse grazie a rovesci lungolinea estremamente incisivi.
E quando sembrava che Angelique le avesse preso le misure, trovando i tempi giusti per contenere il lungolinea, Monica è riuscita ancora una volta a proporre una solizione efficace: ha rinunciato al cross di rovescio spinto “a tutta” in favore di un colpo più lavorato e stretto, che trasformava lo scambio da un confronto di forza a uno in cui diventava decisiva la capacità di caricare di lift la palla. In sostanza: schema simile ma con geometria più stretta, concluso da un lungolinea giocato più a ridosso della rete, che non richiedeva più la potenza ma una notevole manualità per produrre una parabola più arcuata.
Sono solo alcuni esempi della settimana da sogno di Monica Puig, in cui praticamente tutto le è riuscito quasi alla perfezione. Si sapeva che fosse una giocatrice aggressiva, in grado di dare vita a confronti avvincenti e spettacolari (ricordo ad esempio un suo match agli US Open 2014 contro Andrea Petkovic); ma quello che secondo me ha fatto la differenza rispetto alla tennista “normale”, precedente all’impresa di Rio, è stato il bassissimo numero di errori per il tipo di tennis che pratica. Non mi fido delle statistiche brasiliane sugli errori non forzati, per cui non le riporto, ma di sicuro sono stati molto pochi in rapporto al numero di vincenti e al tennis offensivo e coraggioso che è stata capace di mettere in campo.
Dopo il successo di Rio la domanda inevitabile è se questa impresa sia da interpretare come un exploit episodico oppure come il segno di un salto di qualità definitivo.
Ricordo che il torneo olimpico, per come è strutturato, assomiglia più a un normale torneo WTA che a uno Slam. Vale a dire: sei turni invece di sette, ma soprattutto impegno quotidiano invece che ogni due giorni. Significa avere meno tempo per pensare e arrovellarsi tra un match e l’altro e quindi maggiore facilità nel tenere viva l’onda positiva, quella che alimenta la classica “settimana della vita”. Questo aspetto secondo me è un punto a favore della tesi dell’exploit episodico.
D’altra parte Puig non è spuntata dal nulla: ha ottimi trascorsi da junior (numero due del ranking e due finali Slam nel 2011) e dall’inizio della stagione è salita dal numero 92 al numero 35 del mondo. E ha solo 22 anni: quindi potrebbe anche essere che abbia trovato a Rio un equilibrio più solido e duraturo, e che sia in grado di proporsi con costanza ad alti livelli.
Per quanto mi riguarda tra le due ipotesi non saprei quale scegliere; resto in attesa della risposta che ci darà il tempo.