Nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo il Lawn Tennis aveva appena iniziato costruire il suo mito, quasi in contemporanea fra le due sponde dell’Atlantico. Se in Inghilterra l’istituzione di Wimbledon nel 1877 fu la prima pietra della cattedrale e i gemelli Renshaw insieme ad Herbert Lawford cominciavano a evolvere le basi tecniche del gioco introducendo lo smash e il dritto in topspin “the Lawford shot”, qualcosa di molto simile accadeva a più di tremila miglia di distanza verso ovest. Negli Stati Uniti il tennis era stato diffuso a partire dal 1874 da Mary Outerbridge e James Dwight. La nascita della federazione USA nel 1881, quattro soli anni dopo Wimbledon, diede regole certe e un campionato nazionale. Sull’erba del Newport Casino Richard Sears e Henry Slocum cominciarono a dare la loro impronta allo stile dei cugini d’oltremare. E se a Londra si badava molto alla correttezza stilistica privilegiando il gioco a tutto campo, nei dintorni di New York, Boston e Philadelphia si aggrediva la palla con vigore e si perfezionavano il servizio e l’attacco della rete. Diversi ma simili come appunto due cugini possono essere. Si trattava di un vero e proprio Umanesimo del gioco, un periodo di studio, scoperte e innovazioni che avrebbe reso possibile di lì a poco l’esplosione del nuovo sport. Dwight Filley Davis nacque nel 1879 da una delle più facoltose dinastie commerciali di Saint Louis, alcuni sostengono dell’intero Missouri. Il nonno Samuel era lì giunto dal Massachussets durante la corsa all’Ovest e si era presto arricchito col commercio dei tessuti. Dwight è il più giovane dei tre figli nati dal matrimonio di John Tilden Davis con Maria Filley, erede a sua volta di una cospicua famiglia e il cui padre ebbe un ruolo di primo piano nell’impedire che la città passasse ai confederati nei torbidi che seguirono lo scoppio della guerra civile americana. Dwight, “alto, moro, misterioso e senza un’oncia di grasso addosso” è mancino e impara a giocare in villeggiatura sulla costa Est. Quando da tradizione familiare entra ad Harvard ha scelto il suo stile. Attacco, attacco e poi ancora attacco. Non padroneggia perfettamente i colpi di rimbalzo, statura e carattere ne fanno un mastino della rete ed infatti è nel doppio che sarà grandissimo.
Nel prestigioso ateneo della Ivy League Davis incontra gli altri due lati di un triangolo perfetto. Malcolm Douglass Whitman era nato il 15 marzo 1877 a New York, una buona annata, la stessa di Wimbledon e dello stregone Norman Brookes. Sfiorava il metro e novanta, biondo, forte e tranquillo. Il suo spirito razionalista lo portò a scomporre il gioco nei suoi singoli momenti, con lo scopo di eliminare ogni tipo di errore. E ci riuscì. Per cinque anni, fra il 1898 e il 1902, fu imbattibile vincendo tre titoli statunitensi di fila, non aveva punti deboli né a fondocampo né a rete ma soprattutto, come scrissero i grandi rivali Doherty’s, “He has that supreme merit, that he rarely misses easy strokes.” . Ma non è ancora il momento degli immortali fratelli inglesi. Holcombe Ward invece, nato un anno dopo, diventò l’altra metà della mela per Davis, il partner perfetto per un doppio che è entrato nella storia. Bilanciava perfettamente con il suo senso della posizione la potenza del compagno. I tre giocano continuamente, consumano il campo e la superiorità netta di Malcolm spinge gli altri due a costruirsi un gran servizio, potente e carico d’effetto come non si era mai visto.
E se il mancino Davis usava spesso anche lo slice, entrambi perfezionarono l’ ”american twist”, con la palla che viaggiava in una direzione per poi rimbalzare alta dalla parte opposta. Nell’agosto del 1899 Davis, Ward e Whitman, accompagnati dal più giovane Beals Wright, un altro grande fra i pionieri statunitensi, compiono un viaggio ad Ovest nel quale si rendono conto che il giovane gioco ha successo e diffusione enormi anche nella costa opposta dello stato. E forse fu proprio durante il viaggio di ritorno, su un vagone ferroviario con lo sguardo perso oltre il finestrino come in un western di John Ford che il pensiero primigenio colpì la mente di Dwight come una freccia degli Apache. In quel momento il successo di competizioni internazionali come l’America’s Cup e l’amore incondizionato per il tennis diventano idea. Quando a settembre inoltrato il treno entra nella stazione di Boston la Coppa Davis è già nata. Verrà commissionata alla prestigiosa casa Shreve, Crumps & Low di Boston e materialmente ideata e creata dall’artigiano argentiere Rowland Rhodes. E mentre la coppa viene terminata una lettera di sfida attraversava l’oceano in direzione Londra. Era il 16 gennaio 1900 e venne accettata.
Ma gli inglesi non sono tali per nulla e con il misto di superiorità e understatment che li contraddistingue si illusero di poter facilmente avere la meglio sui nuovi venuti con un team di medio livello. Lo scozzese Ernest Black non raggiunse mai i quarti di Wimbledon, Arthur “Baby” Gore lo vinse tre volte ma aveva solo il dritto, Herbert Roper Barrett giocava nelle pause di lavoro e non era ancora diventato un grande doppista. I “tre senza paura”, cosi battezzati dalla stampa inglese, giunsero a Boston solo pochi giorni prima dell’inizio della competizione e l’8 agosto 1900 tutto ebbe finalmente inizio. Quella mattina il giovane Dwight tremava letteralmente. Si era svegliato con un gatto nello stomaco nell’appiccicosa afa estiva di Boston e in spogliatoio aveva dovuto allacciarsi le chiodate scarpette nere almeno cinque volte. In campo era ancora così emozionato che spedì out la prima pallina del match contro Black e continuò fino a perdere il set d’avvio col punteggio di 6-4. Alla pausa era affranto e non riusciva a staccare gli occhi dalle punte dei piedi. Temeva di incontrare quelli di Mal o Holc, i cari amici e compagni di Harvard coi quali aveva trascorso quasi ininterrottamente gli ultimi due anni. Poi, lentamente, alzò lo sguardo e vide la coppa, la sua coppa. L’argento bulinato faceva gran mostra di sé a lato del campo in erba del Longwood Cricket Club e Davis si rinfrancò. Mise ancor più foga nel suo gioco d’attacco, da lì in poi perse un solo turno di battuta e vinse gli altri tre set e l’incontro. Nel campo adiacente si iniziò un po’ dopo e quando il computer Whitman ebbe terminato di massacrare Arthur Gore inchiodandolo sul rovescio l’altro match era ancora in corso. Alla fine della prima giornata gli Stati Uniti conducevano 2-0 e nulla avrebbe potuto salvare gli sprovveduti inglesi.
SEGUE A PAGINA 3