Con la vittoria a Cincinnati contro Tsonga, Steve Johnson è diventato il nuovo n.1 degli Stati Uniti, un risultato straordinario se si considera che il californiano ha iniziato tardi la sua carriera nel circuito ATP. Infatti è diventato professionista nel 2012, dopo essere stato il tennista più vincente della storia del College NCAA, superando proprio i record di John Isner. Con la casacca dei “Trojans”(team dell’Università della California del Sud) Steve ha vinto 4 titoli NCAA consecutivi, due campionati individuali, uno da junior e uno da senior, ma soprattutto ha chiuso una striscia di 72 vittorie consecutive. A tre esami dalla fine, Steve prende una decisione importante: lasciare l’università ed il mondo ovattato e dorato dei College e tentare la carriera da tennista. Una scelta non facile, anche perché la pressione mediatica, gli allenamenti estenuanti ed i continui viaggi che il professionismo impone sono un macigno non facile da sopportare. Tuttavia Johnson è un ragazzo maturo, con una volontà granitica e con la passione per il tennis. Questa voglia di giocare e di competere l’ha presa dal padre che all’età di due anni gli mette la racchetta in mano ed apprende così i primi rudimenti del gioco, ma saranno i coach incontrati al college a trasformare un ragazzo di talento in un tennista. Le ferree regole dell’università americana hanno fatto il resto, infatti il californiano si è costruito una corazza importante, che l’ha protetto dalle difficoltà che, giocoforza, il mondo duro del tennis ti presenta.
Per Johnson non è stato facile passare dall’essere quasi invincibile a subire sconfitte al primo turno nell’inferno dei Futures e dei Challenger, ma il 26enne di Orange ha resistito, ha stretto i denti e si è messo a lavorare sugli aspetti del gioco che non erano all’altezza. Stilisticamente Johnson si muove nel solco della tradizione americana, ovvero fisico possente, grinta, e combinazioni servizio-diritto che lasciano impietriti gli avversari. Il resto del suo repertorio è ancora in fase di evoluzione, perché con il rovescio si difende, mentre con il gioco di volo i problemi sono parecchi. Le volée sono artigianali e la copertura della rete resta ancora lasciata al caso. Dopo un periodo di assestamento, è il 2014 l’anno della svolta per il 26enne americano, perché arriva la continuità e l’avanzamento in classifica. Steve inizia a vincere i Challenger, conquista i titoli a Dallas e Le Grosier, e si affaccia con discreta fortuna anche nel circuito ATP. Saranno, infatti, cinque i top 30 sconfitti (Isner, Haas, Anderson, Gulbis e Feliciano Lopez), ma soprattutto c’è la prima semifinale in carriera a Delray Beach e il primo quarto di finale in un ATP 500, sul cemento americano di Washington. Questi risultati portano Johnson nella top 40, ma è nell’ultimo anno e mezzo che il californiano ha fatto il definitivo salto di qualità. La poliedricità del suo tennis, che si adatta ad ogni superficie, portano Steve ad ottenere dei buoni piazzamenti anche lontano dal cemento, che l’ha visto protagonista nell’esperienza universitaria. Ci sono stati anche miglioramenti dal punto di vista tecnico, infatti ora il rovescio non è solo un colpo difensivo, ma ha acquistato velocità e profondità. Il servizio è decisamente più vario, infatti l’americano usa slice, kick e la potenza indistintamente ed in base alle circostanze. Il diritto è sempre più incisivo e la resistenza fisica negli scambi è aumentata, del resto quando inizi a giocare costantemente contro top 100 la ricerca dei dettagli è fondamentale.
Il 2015 è l’anno dell’assestamento e della consapevolezza, perché Johnson ormai è un tennista che si muove senza problemi nel circuito. Manca ancora l’acuto, ma Steve inizia a farsi strada nei tornei, conquista piazzamenti importanti, infatti c’è per la prima volta la qualificazione al terzo turno in un torneo del Grande Slam (al Roland Garros) e la prima finale ATP a Vienna, in cui viene sconfitto da Ferrer. Tuttavia è il 2016 l’anno delle prime volte, perché c’è la prima vittoria contro un top 10 in carriera (Gasquet al Queen’s), il primo titolo ATP (sull’erba inglese di Nottingham, a dimostrazione della polivalenza dell’americano) e gli ottavi a Wimbledon. A questi successi va aggiunto il bronzo olimpico a Rio in doppio con Sock , che ha dato notorietà ed attenzione mediatica ad un ragazzo schivo e decisamente poco “social”. Da lunedì sarà il nuovo n.1 degli Stati Uniti, un traguardo, forse temporaneo, ma importante perché porterà il “ragazzone” californiano, che ama il mare e il golf, ad essere il simbolo di un movimento tennistico che negli ultimi anni sta mostrando la corda. Sono lontani i tempi del dominio di Sampras e di Agassi, ma la scuola americana resta un “vivaio” importante per il tennis mondiale. In attesa che esplodano i vari Fritz, Kozlov e Tiafoe, per ora l’alfiere del tennis a stelle e strisce è lui, che forse non vincerà uno Slam, ma che con il sacrificio e la costanza si sta costruendo un sogno.