“L’International Tennis Federation ha annunciato oggi che Varvara Lepchenko ha commesso una violazione dell’articolo 2.1 del “Tennis Anti-Doping Programme”, noto come “Programme”. ITF ha però accertato che non esiste colpa né negligenza associata alla violazione e pertanto qualsiasi ipotesi di squalifica viene eliminata. […] I risultati che la signora Lepchenko ha ottenuto nel corso del torneo di Brisbane 2016 (durante il quale la tennista si è sottoposta al primo controllo antidoping, ndr) vengono dichiarati nulli ai sensi degli articoli 9.1 e 9.2.1 del “Programme” e i relativi punti e montepremi maturati durante la rassegna saranno sottratti. La presente circostanza sarà presa in considerazione nel caso in cui la signora Lepchenko dovesse commettere in futuro un’ulteriore violazione dei regolamenti anti-doping.”
È questo l’ultimo atto della nebulosa storia della tennista naturalizzata statunitense, che sembra ora poter uscire illibata dall’accusa di aver assunto sostanze illecite. Andiamo però più a fondo.
Cosa sapevamo fino a ieri del caso Lepchenko?
Qualche giorno prima del via del Roland Garros Anatoly Glebov, un fisioterapista russo che in passato aveva lavorato con Maria Sharapova, confessò a Sport Express che Varvara Lepchenko nei primi mesi dell’anno aveva fallito un test antidoping, risultando positiva al meldonium. La notizia gli era stata data direttamente dal padre della ragazza, che confessò pure di un provvedimento imposto dall’ITF, una sospensione di qualche settimana in attesa di far luce sulla vicenda.
Il 24 maggio, a margine della sconfitta contro Ekaterina Makarova, in una press room insolitamente zeppa di giornalisti, la tennista americana si trincerò dietro un nugolo di no comment, che per l’esattezza furono 8.
Nemmeno l’ITF notificò la positività dell’americana e una portavoce della Federazione così rispose qualche giorno dopo al NYT: “Le regole del programma antidoping non ci permettono di confermare, né di smentire la positività di un giocatore fino a che non si è arrivati ad una decisione definitiva. Non siamo tenuti a rispettare il protocollo solo quando non vengono chieste le controanalisi (come accaduto con Sharapova, ndr).”
Cosa è accaduto davvero a Varvara Lepchenko?
In data 7 gennaio, nel corso del torneo di Brisbane, Lepchenko si è sottoposta a un test antidoping a seguito del quale è risultata positiva per il meldonium. Varvara ha ricevuto un secondo controllo in data 1 febbraio, al quale è risultata nuovamente positiva. Ha continuato a giocare regolarmente sino al torneo di Doha di fine febbraio, poi ha – presumibilmente – ricevuto notifica delle positività ed è stata fermata dall’ITF. Per la cronaca, l’atleta americana ha fallito nuovamente il test anti-doping a marzo ed aprile. Entrambi i controlli, come quello del 1 febbraio, sono avvenuti fuori dalle competizioni.
Fermi tutti, ma allora perché non è stata squalificata?
Il precedente di Sharapova ha imposto massima allerta sulla gestione dei casi-meldonium e la WADA si è riservata di approfondire la questione prima di pronunciarsi su altri atleti. In data 11 aprile ha emesso un comunicato aggiornando la sua posizione sul dibattito nato attorno al farmaco. Il ruolo del comunicato è senz’altro dirimente perché giustifica il cambio di rotto della WADA in merito al meldonium: all’interno è possibile leggervi chiaramente che l’assenza di evidenze scientifiche riguardo ai tempi di escrezione dei metaboliti del farmaco rende complicato stabilire quando un atleta ha effettivamente smesso di assumere la sostanza. Per poter uniformare i casi e avere un metro di giudizio equanime, tutte le positività emerse con concentrazioni inferiori a 15 µg/mL nei campioni di urina non avrebbero generato squalifiche, poiché presumibilmente frutto di assunzioni precedenti al 1 gennaio 2016 (giorno dal quale il meldonium è entrato a far parte della lista di sostanze proibite).
Il test di Lepchenko del 7 gennaio aveva evidenziato una concentrazione di 12,36 µg/mL, dunque inferiore al limite imposto dalla WADA. I quantitativi dei tre controlli successivi sono andati in calando, rispettivamente 0,931 (1 febbraio), 0,339 (1 marzo) e 0,029 (7 aprile). La versione della statunitense, che aveva dichiarato di non aver assunto meldonium dopo il 20 dicembre 2015, è stata così pacificamente accettata dall’ITF che l’ha ufficiosamente scagionata dall’accusa di aver violato il programma anti-doping, permettendole di tornare a giocare dopo soli due mesi (Roma, 6-0 6-3 vs Pironkova).
Facciamo le pulci all’ITF. Perché le hanno tolto i punti di Brisbane? E ancora, si è trattato dell’ennesimo caso di silent ban?
Qui la logica appare un tantino contorta. Nel famoso comunicato la WADA specifica che, sebbene la presenza di meldonium in campioni raccolti successivamente al 1 gennaio costituisca un’effettiva violazione, se non c’è evidenza di colpa o negligenza (quindi se l’atleta non eccede la soglia consentita) la squalifica viene risparmiata. Se però “il campione viene raccolto durante una competizione, i risultati maturati durante quel torneo verranno annullati in accordo con l’articolo 9 del Codice”. Immaginate se Kerber, vincitrice a Melbourne, avesse assunto meldonium fino a dicembre 2015 (quindi senza essere “colpevole”) con la conseguenza di risultare positiva – ma entro la soglia consentiva – a un controllo durante il torneo: le avrebbero davvero tolto il primo Slam della carriera? L’operato dell’ITF appare singolare anche considerando i 130 punti guadagnati da Lepchenko agli Australian Open appena una settimana dopo, punti regolarmente acquisiti dalla tennista statunitense.
Tornando ai fatti. Qualche giorno dopo lo scoppio del caso Lepchenko (che ha avuto una copertura mediatica sostanzialmente irrilevante) l’ITF ha comunicato la decisione di sconfessare la pratica del Silent Ban, abrogando l’articolo 13.3 del “Programma” che vincola la Federazione Internazionale alla segretezza in merito ai casi di sospensione per violazione delle norme che regolano l’antidoping. La decisione è stata presa perché “la reputazione dell’anti-doping è stata danneggiata da accuse che i giocatori scontassero la sospensione senza che essa fosse resa pubblica”, il che corrisponde esattamente a ciò che avveniva. Nel comunicato che l’ITF ha rilasciato qualche ora fa in merito alla decisione di scagionare del tutto la giocatrice americana si può infatti leggere “Ms. Lepchenko was charged with an Anti-Doping Rule Violation under Article 2.1 of the Programme, and was provisionally suspended on 12 March 2016”. L’ITF è stata quindi l’unica federazione a non comunicare in via ufficiale la sospensione di un atleta risultato positivo al meldonium.
Quindi il raffronto con il caso-Sharapova. E se Maria avesse chiesto le controanalisi, negando di aver assunto meldonium dopo l’1 gennaio 2016?
Innanzitutto l’ITF avrebbe dovuto – da regolamento – mantenere la segretezza sulla notizia della sua positività. Il sommario processo con il quale la siberiana è stata universalmente ritenuta colpevole avrebbe senz’altro preso una piega differente, e forse la federazione avrebbe dovuto occuparsi ancor prima di regolamentare i casi di assunzione di meldonium. Beninteso, Maria ha certamente le sue colpe, colpe che vanno oltre quanto lei stessa ha ammesso nell’ormai famosa conferenza. Nel 2015, quando la sostanza non era ancora proibita, aveva omesso di inserire il nome del farmaco nella compilazione degli appositi documenti in cui i tennisti dichiarano quello che – legalmente – assumono. Sappiamo però di Sharapova, perché la sua storia ha raggiunto gli onori della ribalta: ma possiamo essere sicuri che tutti i tennisti facciano esattamente quello che va fatto da protocollo, Lepchenko (che assumeva meldonium nel 2015) compresa?
A cura di Marco Lauria e Alessandro Stella