“Sai cosa? C’è che sono proprio stanco. Ho lottato, sudato, pianto. Ho portato il mio fisico e la mia mente a danzare su un filo sottilissimo, quasi invisibile, che soltanto qualcuno con il mio senso dell’equilibrio e la mia elasticità poteva evitare di spezzare. Ho intravisto i limiti già quando ero ragazzino, quando riuscivo a confondere il rumore delle bombe con lo schiocco del mio rovescio naturale; la paura mi teneva per mano, ed io ho preso per mano la voglia di emergere, l’istinto di sopravvivenza. La fame, quella vera, per trasformarla in desiderio di vincere e primeggiare. Di dominare. E per farlo ho adottato qualsiasi soluzione, qualsiasi dettaglio che potesse portarmi una spanna avanti agli altri. Ho rivoluzionato il mio modo di vivere, di mangiare: sono diventato un guru dell’alimentazione sana, un fautore del gluten free. Sapevo mi avrebbe portato oltre i limiti che avevo individuato vent’anni prima. Ho messo sottosopra anche il mio modo di stare in campo. Avevo problemi al servizio, e ho lottato, sudato, pianto. A rete tremavo, il dritto, a detta di chi ne capisce, era molle e poco incisivo. Allora ho lottato, sudato, pianto, ho modificato la meccanica, la respirazione, il timing. L’approccio al gioco.
Gioco. Quanto sembra inadatta questa parola adesso. Lo dico io che ho portato il concetto di partita su una dimensione da arena gladiatoria, che non mi sono mai preoccupato di stare in silenzio, di non ruggire come una belva quando lo scambio diventa insostenibile. Di non rimanere composto per forza. Rivedendomi allo schermo sembra quasi che non mi diverta più a volte. E allora il gioco dov’è? Ho spaccato racchette, divelto panchine, mi sono stracciato la t-shirt di dosso. Un gioco. E l’ho fatto lottando, sudando, piangendo. Perché sentivo forse di doverlo a me stesso, al mio passato: per la polvere che mi è girata intorno quando correvo dal campetto dietro casa verso il rifugio, a cinque anni. Per le critiche che ho ricevuto quando il mio atteggiamento è parso poco serio, sbruffone, quasi irrispettoso. Forse sentivo di dovermi trascinare fino all’estremo per dimostrare qualcosa che ancora non ho capito. E se questo qualcosa non esistesse? Se in fondo fosse solo un gioco davvero, io me lo fossi dimenticato, e tutti questi sacrifici, queste privazioni, le avessi fatte soltanto perché inseguivo un ideale di me stesso che adesso potrebbe distruggermi? Ho messo a repentaglio il mio corpo, con il mio stile di gioco fatto di allunghi, scivolate, rincorse. Ma quale gioco. Ho messo in pericolo la mia serenità personale, quella che avevo creato con la mia splendida moglie; mi sono sentito vittima delle voci che sono circolate sul mio conto, che sono andate, credo, a fare crepe nell’armatura psicologica che mi ero creato. Lottando, sudando e piangendo.
E pensare che non ero affatto così. Ero lo showman, quello che faceva i video per prendere in giro gli altri tennisti. Quello delle ospitate da Fiorello, della bottiglietta d’acqua al ball boy del Roland Garros. Mi divertivo. Lottavo, sudavo e piangevo, ma ero spinto da un motore di gioia che non serviva manco descrivere, tanto era semplice e irrazionale. Forse perché quei limiti che avevo compreso da piccolo li avevo raggiunti e superati. Adesso che non ne ho più, sono costretto a crearmeli da me; sento che la gioia si sta trasformando in rabbia, non ho più voglia di divertirmi, soltanto la necessità di dovermi confermare, di non dover deludere le aspettative che io per primo mi sto appiccicando alla schiena. Come se adesso avessi una sola etichetta, una sola maschera da vincente. Come se adesso non potessi più fare nemmeno un passo falso, permettermi una sola distrazione che subito pubblico e giornalisti sembrerebbero agitarsi. Come se adesso davvero volessi soltanto giocare: accuso il peso della mia grandezza, in ogni momento. Non ho più la possibilità di sbagliare una parola, un’espressione, un movimento. Ho gli occhi di tutti puntati su tutto me stesso. E sento anche di stare perdendo quella spensieratezza con cui avevo iniziato a girare questo mondo. Il tennis e tutto quello che lo circonda erano una via di fuga, un’isola, una nuvola su cui adagiarmi. Serviva lottare, sudare e piangere per potermici stendere soddisfatto, ma era una nicchia di sorriso quando ero nei casini.
Mi sento in gabbia adesso. Costretto tra le maglie di metallo prezioso che ho costruito in questi anni di successo. Anni in cui ho giocato, e l’ho fatto davvero. Le urla animalesche che ho lanciato mentre ero sdraiato dopo l’ultimo punto di ogni torneo importante; me le ricordo bene, ed ero contento, era gioia. Mi dicevo che quel trionfo era il risultato delle lotte, del sudore, dei pianti che avevo prodotto nel tempo precedente. Ed era come stare su quella nuvola, mi sentivo leggero. Sai che c’è? C’è che sono stanco, perché ora quelle urla non sono più di goduria per avercela fatta. Sono una liberazione furiosa, per aver dimostrato ad altri che sono ancora il più forte, ed aver allontanato il fantasma della pressione e delle critiche. Ho lottato, sudato, pianto. Ma sento di non divertirmi più”.