Kyrgios: “Puoi chiamare il tempo così finiamo e vado a casa?” (VIDEO)
La verità è che per un tennis migliore abbiamo forse bisogno di entrambi: di Nick Kyrgios e di chi gli fa la morale, di chi ogni volta ne ha abbastanza, mentre quello lì rilancia e ne fa una ancora più grossa. È l’elementare concetto della sintesi degli opposti, possiamo scegliere da che parte stare e convincerci della bontà della nostra scelta, ma stiamo contemporaneamente escludendo una parte della verità, irrimediabilmente. Toccherà farsene una ragione se ogni volta suonano tanto inesorabili quanto iperboliche le reazioni di chi inciampando nell’ennesima marachella ha creduto fosse cosa buona e giusta mostrarsi indignato in cambio di un manciata di consensi: l’innesto chimico che tutto ciò provoca in Kyrgios è solo l’irrazionale desiderio di liberarsi una volta di più dalle irreprensibili imposizioni preconfezionate che gravano attorno ad un mondo che pretende di erigere ad esempio un ragazzetto capace soltanto di maneggiare da Dio una racchetta.
Si rischia di fare la fine del Signore e della Signora Portnoy, due ebrei al cubo, come li definirebbe Woody Allen, che per la smania di catechizzare il figlio finirono per covarlo in un regime di repressione di qualsiasi istinto. Sembra assurdo, ma non è molto diverso da ciò che si continua incessantemente a fare col malcapitato Nick, che ogni tanto valica i confini della decenza, ma il più delle volte finisce sotto i riflettori per qualche gesto trascurabile. Sperare si incastri prima o poi in un modello educativo formalmente insensato, come quello del prototipo del tennista perfetto (che tutti identificano in Federer, ca va sans dire) è in parte frutto di una bieca ipocrisia. D’altronde chi ieri lo fischiava per quel suo atteggiamento in campo ha ricevuto una risposta più che esauriente: decidi di comprare un biglietto per vedermi giocare? Io non ti devo niente. Fa parte del personaggio Kyrgios e questo è già spettacolo. E poi chissà se ieri qualcuno si è annoiato davvero nel vederlo ciondolare verso la seduta dopo un servizio float senza effetto floating, chissà se alla terza buffonata c’era chi tra il pubblico ha creduto fosse giusto alzarsi ed andare via, offeso “da tanto talento gettato alle ortiche, dai comportamenti di un ragazzino viziato che non si rende conto di essere così fortunato, da quello che se avesse la testa avrebbe già vinto uno Slam”.. e bla bla bla, perché sguazzare nel marcio altrui è uno sport che ci appassiona più degli altri.
Nick Kyrgios è un dipinto di Leonid Afremov: un’esplosione di colori che irrompono nel grigio di un tennis sempre più orfano di personalità dirompenti, un ambiente sterilizzato dal politicamente corretto. Nick Kyrgios è in grado di elevare a mainstream uno sport che ha immensamente bisogno di un tipo come lui, con buona pace dei fondamentalisti delle buona maniere che avrebbero preferito che uno così scegliesse di fare il cestista. Lo ha detto più volte: “Sono un tennista diverso“. Lo ripete come a solleticare il feticismo degli aficionados per quelle due regoline di condotta che governano il tennis, e ci tiene a sottolinearlo “ehi, io non sono come quelli lì, come quelli che vincono sempre. E non lo sarò mai. Se non vi diverto non è un problema, ma mi dispiace, non vi credo”.