Djokovic che cuore, batte la paura e vola in semifinale (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)
Chiamale se vuoi, emozioni. O colpi di genio, o di pazzia, di sregolatezza e meraviglia. Novak Djokovic, contro Thiem si era preso il lusso di lasciare un set ma ieri, il cinque volte campione del Masters, che va caccia della sesta affermazione, la quinta consecutiva, ha rischiato grosso con Milos Raonic che lo ha costretto a due tie break molto sofferti. Un Milos competitivo nonostante i problemi fisici che avevano messo in dubbio la sua presenza fino a pochissimi giorni dal via delle Atp Finals. Una vittoria, quella i ieri che è anche una piccola «vendetta» da parte del serbo. Era stato infatti proprio Raonic, ritirandosi a Bercy contro Murray in semifinale per uno stiramento alla gamba destra, a consegnare allo scozzese lo scettro del numero 1 al mondo proprio ai danni di Nole. L’allievo di Riccardo Piatti non riesce così a sfatare il tabù che lo vede perdere sempre nei confronti con l’ex numero 1 al mondo: e la striscia si allunga fino a otto sconfitte su altrettanti incontri.
Il primo set è abbastanza equilibrato, con Raonic che rischia di subire il break nell’ottavo gioco ma poi si salva col servizio. Il 25enne di origine montenegrina mette in difficoltà Nole che appare in alcune occasioni un po’ distratto e nervoso, ma quando il gioco si fa duro, l’ex numero 1 tira fuori la cattiveria che gli ha consentito di conquistare 12 Slam e 30 titoli Masters 1000 e si aggiudica il set al tie break. Nel secondo parziale Raonic perde la battuta nel primo game per poi recuperare il break nel quarto, ma Nole allunga di nuovo per il 3-2. E’ l’ottavo gioco che riapre i giochi, con Djokovic che perde la battuta dandosi del pazzo ripetutamente davanti allo sguardo impietrito di Becker. Raonic riesce a portare il serbo al tie break anche nel secondo set, si fa annullare un set point e poi si arrende al Djokovic versione cannibale.
La corsa di Novak Djokovic al numero 1 continua. Seguito nel box dalla sua coppia di tecnici Vajda e Becker, ma accompagnato anche dal «mental coach» Pepe Imaz, Nole è già certo della semifinale. Il pallino torna nelle mani di Andy Murray, accolto come trionfatore dalla 02 Arena di Londra nella sua prima uscita da numero 1, contro Marin Cilic. Oggi, nel girone intitolato a McEnroe, Andy affronta l’altro vincitore della prima giornata, quel Kei Nishikori che ha spazzato via in un’ora il campione Us Open Stan Wawrinka. Se dovesse vincere, la sua qualificazione alle semifinali sarebbe assicurata.
Si sblocca quindi Dominic Thiem, pur sempre cedendo un set a Gael Monfils che, apparso a un certo punto più morto che vivo, è resuscitato mettendosi a giocare con coraggio e creando non pochi problemi all’austriaco che invece ha portato a casa il primo successo della carriera al Masters (…)
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Il campetto delle Williams rinasce nel ghetto (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)
Venus si è emozionata quando la gente del quartiere si è stretta intorno a lei e Serena: «Ci torniamo con frequenza qui, solo che manteniamo un basso profilo e non lo andiamo a strillare in giro». Qui è Compton, il ghetto violento a un passo dall’aeroporto di Los Angeles e dal training center dei Lakers, dove le sorelle abitavano e si allenavano da bambine. Oggi quei campetti sgangherati, che rendevano impossibili i rimbalzi delle palline e dove al tramonto scattava un coprifuoco spontaneo per via delle gang, sono stati rinnovati grazie alla Gatorade e alle Sisters. Ora, come è giusto che sia, avranno per sempre il loro nome – «Venus e Serena Williams Court of Champions» – e un enorme valore simbolico: l’esempio concreto di chi ce l’ha fatta contro ogni pronostico.
Il merito va a Richard Williams, allenatore, padre e un po’ padrone di Venus e Serena, che ammette senza apparente rimorso di aver scelto di abitare a Compton pur potendosi permettere un luogo più decente: «Ma lì è dove volevo crescere le mie figlie, dove le avrei fatte diventare due campionesse: non c’era posto peggiore di Compton in tutta l’America. Il ghetto ti rende più forte e ti indurisce». Già, ma a che prezzo. Perché anni dopo 11 quell’incredibile ascesa alla vetta del ranking del tennis, nel 2003, la sorellastra Yetunde Price (la maggiore del gruppo di cinque, figlia di un precedente matrimonio della madre), di 31 anni, infermiera e proprietaria di un salone di bellezza, venne assassinata proprio su queste strade. Qui, nel modo più classico: a colpi di pistola mentre si trovava a bordo di un’auto guidata dal fidanzato, il vero bersaglio dell’omicida.
Il ritorno alle origini delle Sisters era anche per lei: «Vogliamo onorare la memoria di nostra sorella, la più anziana di tutte noi e la più amata». Nel fine settimana, due dei suoi tre figli, i nipoti di Venus e Serena, Justus e Jair, hanno ricevuto una targa in onore della loro mamma. E nel suo nome è stato costruito il Yetunde Price Resource Center, che aprirà all’inizio di dicembre e aiuterà le persone con traumi psicologici dovuti a morti violente in famiglia. Con la possibilità di ricevere fino a 50 clienti al mese: «Sappiamo che questo numero dovrà aumentare per via del crescente bisogno», ha spiegato Sharoni Little, la responsabile del centro. Perché a Compton si continua a sparare (anche se negli ultimi tempi con più moderazione) e la vicinanza geografica con i luoghi cult dei turisti non ha mai scoraggiato né i Crips né i Bloods, le due gang rivali che si affrontano nelle street come su un campo di battaglia. Fra il 2000 e il 2016, Compton ha scalato classifiche molto meno ambiziose di quelle del tennis: il 91.5% delle persone decedute sono state uccise con un’arma da fuoco (rispetto al 67.7% a livello nazionale). Ma dal 2013, il nuovo sindaco, la 34enue Aja Brown, ha convinto la gang a una tregua e il numero di omicidi è diminuito fino al minimo storico di 15 nel 2015.
II primo cittadino spiega, indicando uno dei campetti: «Venivo spesso a osservare Venus e Serena allenarsi e vedevo due ragazzine che mi assomigliavano nell’aspetto fare cose straordinarie. Sono state un’ispirazione pazzesca». Sono i campi dove papà Williams portava decine di adolescenti e li pagava perché insultassero con ogni tipo di epiteto razzista le figlie mentre giocavano fra loro match tiratissimi: «Le critiche fortificano e ti fanno arrivare al successo: volevo che fossero pronte a tutto», spiegò anni fa a Cnn. Venus ha spalancato gli occhi e ha detto: «Non puoi scordarti questi luoghi (…)
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Djokovic ritrova Djokovic (Claudio Giua, repubblica.it)
Neanche fosse l’effetto di una Red Bull superconcentrata, la possibilità di riprendersi subito il primo posto nella classifica mondiale mette le ali a Novak Djokovic. Siamo sempre lì: nel tennis le motivazioni contano più della condizione fisica, che nel caso del campione uscente delle World Tour Finals è al settanta per cento. Forse meno. Con il risicato e sofferto successo a spese di Milos Raonic, canadese nato a Podgorica e dunque suo cuginetto balcanico, il serbo ottiene in anticipo l’accesso alle semifinali del torneo londinese dei Top Eight, che chiude la stagione ATP, e si appresta con ogni probabilità a sfidare Andy Murray, che pochi giorni fa gli ha sottratto lo scettro legittimamente suo per due anni e quattro mesi.
Partita di qualità pari alla tensione, finalmente. Il divario motivazionale tra Djokovic e Raonic appare evidente solo nel tie break del primo set, fino a quel momento molto equilibrato, quando il serbo recupera da 1-3, poi non riesce a trasformare il primo match point mentre alla seconda occasione gli basta stare a guardare da fondo campo il bombardiere, già allievo di Ivan Ljubicic, commettere un incredibile doppio fallo (8-6).
Il secondo set è un’altra storia per sei game, durante i quali Djokovic si prende due break, ne restituisce uno e, sul 4-2, s’appresta a limitarsi a controllare che Raonic non gli si riavvicini: non gli serve far di più, pensiamo tutti. Invece subisce un black out tanto incomprensibile quanto prolungato che consente a Milos di portarsi avanti per 5-6 30-40. Ma il numero 2 ATP ritrova la forza e la concentrazione per rifarsi sotto e conquistare di nuovo il diritto a disputare il tie-break. Come un’ora prima, a fare la differenza sono le motivazioni. Nole lotta, non si perde mai d’animo, recupera il ritardo e trasforma positivamente il primo match point a disposizione. Dirà nell’intervista di fine partita: bisogna saper capitalizzare ogni opportunità, Raonic è il giocatore che è più cresciuto negli ultimi due anni, non gli si può concedere nulla. Condivido parola per parola. A mio giudizio, da almeno tre mesi Djokovic non si esprimeva a questi livelli. Merito di un avversario in grande spolvero (Milos è stasera, virtualmente, il numero 3 al mondo) e dei tre numi tutelari appollaiati in tribuna, Boris Becker, Marian Vajda e la new entry Pepe Imaz, versione molto particolare di mental coach, ex tennista spagnolo che ha come motto “Amor y Paz”.
Sempre di più queste Finals, come da tradizione partecipatissime dal pubblico della O2 Arena, sembrano un affare privato tra Djokovic e Murray. Non sappiamo, ovviamente, se lo scozzese approderà subito alle semifinali e nemmeno se gli toccherà Djokovic. Ma siamo certi che gli gnomi dell’ATP stanno accendendo i ceri e facendo le macumba perché i santi e i santoni del tennis concedano la grazia di una finale tra i due mattatori del 2016, vincitori di tre Slam (Melbourne e Parigi per Nole, Wimbledon per Andy, che s’è preso anche l’oro olimpico a Rio). Mai, a mia memoria, l’ultima partita della stagione ha deciso il numero 1 di fine anno, quello che viene regolarmente citato come tale nelle antologie specializzate. Va detto che la questione è statisticamente irrilevante, se si tiene conto che dal 2 febbraio 2004, giorno in cui venne detronizzato Andy Roddick, al 7 novembre scorso solo tre giocatori sono stati in cima alla classifica mondiale, alternandosi: Roger Federer (per 302 settimane complessive, record assoluto), Djokovic (223) e Rafael Nadal (141). Con le sue due settimane da leader ATP ancora da concludere, Murray è al momento poco più di una comparsa nella lista storica dei numeri 1, alla pari con Carlos Moyà, attuale coach di Raonic insieme a Riccardo Piatti (…)