Due anni fa Marin Cilic vinse uno dei più sorprendenti US Open della storia. C’erano Federer, Djokovic e Murray in quel torneo, mancava solo Nadal, ma fu lui a trionfare. Dopo aver dominato Roger Federer in semifinale e il giustiziere giapponese di Novak Djokovic in finale. Non fu forse una sorpresa così deflagrante come quella realizzata da Goran Ivanisevic nel 2001 a Wimbledon da n.125 del mondo, e grazie a una wild card, ma… insomma… il lungo mancino croato di Spalato di finali a Wimbledon ne aveva pur sempre giocate già tre, perdendole una prima volta da Agassi nel ’92 e due volte da Sampras, mica da Cincirinella. E poi Marin, oggi fresco di best ranking quale n.6 del mondo dopo le finali ATP di Londra, non era mai stato n.2 ATP come il suo ex allenatore Goran. Però adesso l’allievo, già protagonista del successo croato in Coppa Davis contro la Francia, potrebbe superare il maestro, come Giotto con Cimabue, se al suo palmares aggiungesse una Coppa Davis che invece Ivanisevic non è mai riuscito a conquistare. Marin, ragazzo forse troppo schivo, gentile, perbene e beneducato per diventare personaggio carismatico come Ivanisevic (un vero spasso assistere alle sue conferenze stampa, il n.1 di tutti i tempi) diventerebbe comunque un idolo dei croati se ripetesse anche contro gli argentini le tre giornate vissute a Zara contro i francesi. “Il brillio della Coppa Davis mi dà la forza di affrontare anche questo weekend, dopo una lunga stagione in cui ci sono stati già momenti bellissimi”.
Certo Marin allude al torneo di Cincinnati, il Masters 1000 vinto battendo l’allora n.2 del mondo, Andy Murray. E tre settimane fa, dopo 14 sconfitte di fila, la grande rivalsa a Parigi Bercy, la vittoria su Novak Djokovic n.1 del mondo nei quarti di finale. “Lui non ha giocato bene e lo so, ma se io gioco bene so anche che posso battere chiunque…”. E a Basilea lo aveva dimostrato davanti a del Potro. Ma ci sono stati anche momenti di grande ineliminabile rimpianto: “I quarti di finale a Wimbledon, con i cinque set e i tre match point mancati contro Roger Federer! Ma fu bravo Roger”. E momenti duri, come il divorzio di luglio con Goran Ivanisevic, al fianco del quale aveva vinto quell’US Open che gli aveva dischiuso le porte verso una nuova consapevolezza. A 28 anni Marin Cilic, ex pupillo di Bob Brett e allievo sia alla scuola di Mouratoglou che a quella di Bordighera, non dubita più delle proprie qualità. Da ragazzino dicono che avesse un caratterino tutto pepe, ma chi non lo aveva se lo avevano pure Federer, Murray e, meno, Nadal? “Ora cerco di focalizzarmi nel non mostrare troppe emozioni, credo che mi aiuti restare calmo” dice con un tono di voce basso e profondo, ma soft, senza alzarlo.
Sono passati sette anni da quando Marin, a 22 anni da compiere, si fece notare per la prima volta ad altissimi livelli, raggiungendo le semifinali dell’Australian Open. Da allora è stato quasi sempre fra i primi 20, ha avuto la vicissitudine del presunto doping (“Per fortuna nessuno nel circuito ha creduto che io avessi davvero tentato di barare”), e poi ha “svoltato”quando nel 2013 si è trovato Ivanisevic ad aiutarlo a… servire sempre meglio. Dall’alto del suo metro e 98, proprio gli stessi centimetri di del Potro, sarebbe stato un delitto non approfittarne per giocare servizi esplosivi. Missione compiuta per il ragazzone di Medjugorie (“Chila” il soprannome per gli amici, oggi residente a Montecarlo e in grado di esprimersi in diverse lingue, croato, serbo, inglese, francese e anche un po’ di italiano) che non a caso ha vinto 8 dei suoi 16 tornei su campi al coperto, dove il suo tennis può diventare inarrestabile. 16 tornei e 16 milioni di montepremi ufficiale, curiosa coincidenza. Ha chiuso il 2013 al 37mo posto, dopo il lungo break, il 2014 al 9no, il 2015 al 13mo, e ora il 2016 al sesto.
Dopo aver divorziato da Ivanisevic Marin Cilic si è dovuto cercare un altro coach. Ha scelto Jonas Bjorkman, lo svedese ex n.4 del mondo che lo scorso anno sostituì Amelie Mauresmo, incinta, per allenare Andy Murray. Nel ’97 Bjorkman raggiunse le semifinali in singolare al Masters di fine stagione e poi fu protagonista del 5-0 inflitto agli USA nella finale di Davis a Göteborg: Jonas, nel match iniziale, batté Michael Chang. Un compito più facile di quello che all’esordio di questa finale di Zagabria attende Cilic: l’argentino Delbonis è un bel combattente, ma non vale Chang. “Ho pensato a lui, a Bjorkman, per via della sua grande esperienza, perché sapevo di poter lavorare ancora di più sul servizio, soprattutto sul mio gioco a rete perché lui è stato uno dei migliori doppisti del mondo. E in particolare volevo lavorare sulla transizione fra il mio tennis da fondo campo e quello a rete. È’ il passaggio più difficile. Nessuno meglio di lui poteva aiutarmi in tutti questi aspetti”.
Quella transizione, dal formidabile servizio al gioco a rete, è stato a suo tempo la prima grande difficoltà che dovette superare Pete Sampras, che serviva a volte troppo forte per poi riuscire a presentarsi a rete nei tempi giusti. Rispetto a Pete Marin ha meno classe, ma i colpi da fondo campo sono forse più solidi, anche perché lui ci ha potuto lavorare soprattutto sulla terra battuta, in Croazia, in Francia, In Italia. Per un uomo della sua statura Marin è non solo molto forte fisicamente, ma è anche incredibilmente agile. Più di tanti molto meno alti di lui. Infatti se è vero che può essere inviolabile quando ha lui il pallino in mano, non è per nulla debole nemmeno quando deve recuperare, quando è attaccato. Una delle sue migliori qualità, anzi, è trasformare una fase difensiva in una d’attacco. Però il gioco di del Potro lo ha spesso sofferto. Perché il dritto di Juan Martin fa male a parecchi, anche a Cilic. Perché questa sia una finale memorabile io mi auguro di poter vedere domenica il miglior Cilic contro il miglior del Potro sul 2-1 per una delle due squadre, insomma con il risultato ancora in bilico. Dopo di che farò il tifo per chi sta sotto 2-1, perché i miei ricordi più belli di tante finali di Davis risalgono a quei match che si sono decise sul 2 pari. Penso a Svezia-Francia nel ’96 a Malmoe, 20 anni fa dunque, quando Artaud Boetsch annullò sul 2 pari 3 matchpoints consecutivi a Niklas Kulti, penso a Youzhny che rimontò due set a zero a Mathieu in Francia… quindi non sempre grandi campioni che decisero quale Paese dovesse trionfare.
Non sarebbero incredibili campioni neppure Leo Mayer e Ivo Karlovic, se sul 2 pari dovessero decidere chi vincerà fra l’Argentina mai vittoriosa in Coppa Davis in quattro finali, e pur avendone disputate con Vilas e Clerc – guardate le video-interviste con Guillermo Salatino e Christian Martin realizzate a Londra per capire quanto ci tengano gli argentini (in questo momento vi scrivo dall’aereo Lufthansa che da Francoforte mi porta a Zagabria: è letteralmente invaso da tifosi argentini, una cosa incredibile, e mi dicono che i giornalisti al seguito del team di Orsanic siano più di 30) – e la Croazia che vinse quella del 2005 battendo la Slovacchia a Bratislava. Quella finì 3-2, dopo che Ljubicic fino allora imbattuto perse da Hrbaty in cinque set, ma Mario Ancic si trovò davanti il modestissimo Mertinak (almeno mi pare… c’ero, ma non ho ora la possibilità di controllare) e davvero non poteva perdere. Ecco, quello fu un 3-2 poco esaltante e in uno stadio che pareva una palestra con tribune. Qui a Zagabria con 15.000 appassionati sugli spalti sarà tutta un’altra cosa… e forse il presidente della federazione internazionale Haggerty tornerà sulla sua idea di far giocare la finale di Davis in campo neutro. L’atmosfera non potrà mai essere la stessa.