“E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose”. Così cantava De André, ammantando di nobiltà la cronaca nera della morte di una prostituta. E non v’è dubbio che la bellezza sia inesorabilmente caduca, che la perfezione estetica sia votata al degrado. A volte questa legge della cosmologia assume inaspettate accelerazioni, così che lo schiaffo del tempo interrompe bruscamente attimi di sublime eccellenza, tanto maestosi quanto fugaci nelle loro manifestazioni. Nello sport questi fenomeni coincidono con le vicende di carriere e successi folgoranti nel loro deflagrare, ma altrettanto repentini nell’esaurirsi. È la storia di Casey Stoner, il pilota che sapeva spargere talento puro in ogni curva, che guidava diverso dagli altri e sperimentava vette inesplorate nel rapporto con la velocità, il controllo, l’aderenza all’asfalto. Le gare motoristiche soffrono la diversità dei mezzi meccanici, rendendo complessa, se non impossibile, una valutazione oggettiva dei reali valori in campo. Con Stoner però si tratta di fare un’eccezione: prende una moto di seconda fila che non ha mai vinto nulla, la porta alla vittoria del titolo mondiale nel 2007, dando 2 secondi al giro ad ogni compagno di squadra. Poi se ne va alla Honda, e Ducati torna nella mediocrità, nonostante ci provino altri campioni affermati e altrove decorati. Perché la verità è che faceva un altro sport in sella a quell’oggetto e se chiedete ad uno qualsiasi dei piloti, tutti, italiani o stranieri, quale sia il più impressionante che abbiano incontrato sulla loro strada, il nome è sempre lo stesso: Casey Stoner. Un altro mondiale nel 2011 e più niente. Forse la noia, l’esaurirsi dell’emozione, lo spirare degli stimoli. Fine. A soli 27 anni. Quando altre carriere entrano nel vivo, quando esperienza ed efficienza fisica toccano armonici equilibri. Fine.
Nel tennis è la storia di Marat Safin, numero 1 delle classifiche per 9 settimane. Come le rose, appunto. Un servizio esplosivo, colpi piatti e potenti, uno dei più bei rovesci bimani della storia, ma anche una manina fatata, voleè e smorzate a profusione. Qualità sublime in un fisico imponente e agile insieme. Si direbbe nato per il nostro gioco. Arrivano due Slam, una Davis, stagioni di vertice. E quella semifinale dell’Australian Open 2005, quando centra un’impresa che va oltre la cronaca spicciola e si consegna alla storia: sfidare e battere Roger Federer sul suo stesso terreno, quello del talento e dei gesti fatati. Chi ci ha provato, prima e dopo Marat, è sempre tornato a casa con il capo chino e un manuale svizzero di tecnica nel taschino. Lui, Sua Maestà, si sa, patisce solo i ribattitori maledetti, quelli che la mettono sul fisico, la corsa e l’impeto violento. Nadal, Djokovic, a volte Del Potro, la loro idea di tennis. Non quella volta però. Un match point annullato, altri sei sprecati, Safin chiude 9-7 al quinto una partita che è già leggenda in una giostra caleidoscopica di tocchi e magie. Pare davvero avviato ad una logica collocazione fra i più grandi di sempre, se non fosse per quella pericolosa tendenza all’indolenza. Se non fosse preda di scatti d’ira, distrazioni, sregolatezze, infortuni. Fine. Ancora qualche sgocciolo di carriera, gli acuti ormai rari e infine l’addio, a soli 29 anni. Fine.
Sono scelte anomale, così distanti da esempi come Connors o Haas, opposte a quei calciatori ormai sbiaditi che annaspano nelle serie inferiori per un amore assoluto verso il proprio sport. Stoner e Safin non amano le proprie discipline incondizionatamente, concepiscono solo l’eccellenza, solo quello che il loro talento rende folgorante. Forse Stoner e Safin sono un’opera incompiuta, un romanzo non finito. Ma sorge il dubbio che siano degli esteti consapevoli che il loro genio si possa manifestare solo per un tempo molto limitato, che la perfezione non sia riproducibile nel lungo periodo, o almeno non ne siano capaci. Meglio chiudere prima del declino, consegnarci un ricordo di bellezza e provare ad ingannare il tempo. Solo un giorno, come le rose.
Riccardo Urbani