Ogni anno i campi da tennis, sia nei piccoli circoli di provincia che nei grandi tornei internazionali, sono teatri di battaglie epiche, fatte di continui ribaltamenti di fronte, colpi di scena e gloriosi finali. A questa categoria appartengono tutti quegli incontri estremamente equilibrati che si concludono con una particolare formula appassionante e incerta dal punto di vista del risultato finale, che esiste da nemmeno mezzo secolo e che tanto piace agli americani: il tie-break.
Un esito tanto spettacolare quanto raro; i numeri infatti ci dicono che nei 63 tornei disputati nel 2016 a livello ATP al meglio dei tre set, comprese le Olimpiadi di Rio de Janeiro e le Finals di Londra, 109 incontri sono terminati al tie-break del terzo (quasi due per ogni torneo). Sorprendente soprattutto la statistica che ci dice che nel 65% circa dei casi a spuntarla è il giocatore con la classifica inferiore, in una sola parola lo sfavorito. Vista l’imprevedibilità della formula, qualunque giocatore sarebbe pronto a dire che, in queste situazioni critiche e di massima pressione, bisogna puntare sulle nostre qualità migliori, quello che sappiamo fare meglio e nel quale siamo più sicuri, evitando di prendersi rischi eccessivi o di fare stupidaggini. Questo però sembra non valere per gli sfavoriti che, chiamati alla prova del nove, presi dalla trance agonistica e dalla voglia di impresa, tentano il tutto per tutto assumendosi più rischi, aggiudicandosi più spesso l’ultimo sporco tie-break.
Questi sono anche gli incontri delle occasioni sprecate: in 40 dei 109 incontri totali, il vincitore ha dovuto salvare uno o più match point prima di aggiudicarsi la lotta e in due casi il/i match point corrispondevano anche a un/dei championship point, a Sidney e Newport.
Queste autentiche maratone hanno mediamente una durata di 2h e 31m. Ne sanno qualcosa gli organizzatori dei tornei di Miami, che di partite del genere quest’anno ne hanno viste ben otto, una ogni 12 incontri circa. Va anche peggio – o meglio, dipende dai punti di vista – al 1000 di Madrid, dove il pubblico ha potuto assistere per sei volte al tie-break decisivo; una media più alta (una ogni nove circa) se si considera che il tabellone del torneo statunitense è composto da 96 giocatori, mentre quello di Ion Tiriac da 56. In totale 49 tornei hanno potuto assistere ad almeno un tie-break finale.
Inutile dire che la maggior parte di questi incontri così combattuti sono stati giocati sul cemento (72), non solo perché è più difficile strappare il servizio all’avversario, ma semplicemente perché gran parte della stagione si gioca su questa superficie. Sulla terra invece i tie-break decisivi sono stati 28, mentre sull’erba appena 9, in soli sei tornei al meglio delle tre partite.
Le finali che si sono decise al tie-break sono solamente tre, ma curiosamente si sono giocate su tre superfici diverse: il cemento di Sidney, la terra di Buenos Aires e l’erba di Newport. Proprio la finale del Hall of Fame Tennis Championships, vinta da Karlovic ai danni di Muller, è anche uno dei 10 incontri della stagione che hanno visto il maggior numero di game possibili in un incontro al meglio delle tre partite, ovvero 39, poiché tutte e tre sono terminate al tie-break.
Non c’è dubbio dunque che questa formula si affidi spesso al caso, premiando più spesso, almeno per quanto riguarda il terzo set, il giocatore in quel momento più sconsiderato o fortunato, invece che quello più lucido. Se questo sia un bene o meno, rimangono molte opinioni contrastanti. Voi però non perdetevi la seconda parte dove vedremo le performance dei singoli giocatori. Chi ne ha giocate di più? Chi ne ha vinte di più? Chi ha sprecato più match point? Qual è stato l’incontro più spettacolare? E come si sono comprati gli italiani in questi momenti critici?