Insomma, Escudé sa come far fuori il neo numero 1 del mondo. A Wimbledon ci è riuscito grazie ai colpi di inizio gioco: servizio e risposta. Qui le cose vanno meno bene, Hewitt parte meglio, ottiene il break, fa suo il primo set 6-4 e, quando anche il francese si rimette in partita (6-3 il secondo), non si scompone e riprende a macinare tennis con la solidità che chiunque gli riconosce. Per i 15 mila della Rod Laver Arena è l’antipasto con cui tenere a freno l’appetito in attesa dell’abbuffata che arriverà quando in campo ci sarà l’idolo di tutti, ovvero Rafter, “il nostro St.Patrick” come recita uno striscione sugli spalti. Tuttavia, può succedere che gli stuzzichini diventino indigesti ed è esattamente ciò che accade dal quarto parziale in poi. Escudé tiene qualche risposta in campo, inizia a pensare che “quando l’hai fatto una volta, puoi ripeterti” e crede nella rimonta. Intanto Hewitt accumula nervosismo e frustrazione in egual misura, si fa prendere dalla fretta e alla fine cede 6-4 al quinto. “Lui ha sempre lottato, anche quando si è trovato sotto 0-40 0 15-40, ma aver capitalizzato solo tre palle-break su diciotto mi è costato il match” ammetterà il numero 1 del mondo.Potrebbe essere l’inizio di una delusione sportiva che seguirebbe da vicino le sconfitte rimediate contro Francia e Inghilterra dai Wallabies campioni del mondo in carica nonché detentori del Tri Nations (rugby) e l’eliminazione della nazionale di calcio dai prossimi mondiali (2002, Corea e Giappone) per mano dell’Uruguay. Potrebbe essere, ma “St.Patrick” Rafter non lascia scampo a Grosjean e si va al riposo sulla situazione di 1-1. A quel punto è Fitzgerald, coach di casa, ad avere un dubbio: confermare per il doppio Arthurs-Woodbridge o riproporre i singolaristi anche in coppia? Rafter è in forma splendida e Hewitt, un anno prima di vincerli in singolare, gli US Open se li è aggiudicati insieme a Max Mirnyi. La notte porta consiglio e alla fine John rinuncia agli specialisti e manda in campo gli assi. Peccato per lui che il vero asso nella manica ce l’abbia il collega francese e lo estragga nel momento più opportuno.
Pioline ha passato i 32 anni e nella classifica ATP di singolare è franato di oltre 70 posizioni dall’inizio del 2001. Come se non bastasse, con “le magicien” Santoro non è che Cedric vada poi così d’accordo ma si sa come sono fatti i francesi quando vogliono: tanto sono bizzosi, altrettanto trovano nella ragion di stato le motivazioni per mettersi tutto dietro le spalle e lottare per un unico obiettivo. L’Australia parte meglio (6-2) ma perde il tie-break del terzo set e la Francia approda alla giornata finale avanti 2-1. Fitzgerald, sibillino, dice che la linea che divide il genio dalla stupidità è assai sottile e quando annuncia il forfait di Rafter per l’ultimo singolare si viene a sapere che la spalla di “St.Patrick” era malmessa dopo la vittoria su Grosjean e aveva l’autonomia di un solo match, possibilmente non troppo lungo e duro. Obbligata, dunque, la scelta del doppio e adesso i padroni di casa devono fare di necessità virtù. Hewitt ha quella che Vinicio Capossela chiama “scorza di mulo”, ovvero la capacità e la maturità di sopportare anche i colpi più duri e trovare sempre “la più corta via di casa”. Ne fa le spese lo spaesato Grosjean, vero anello debole della catena transalpina. Così, come nel miglior thriller, le sorti di questa Davis vengono decise dai numeri due. Anzi, dai numeri tre. Perché Escudé era la terza scelta prima della vigilia e Wayne Arthurs non pensava certo di dover scendere nell’arena per giocarsi la partita più importante e complicata della carriera. In realtà non tutto è perduto per i canguri in quanto il mancino di Adelaide (che però ora vive nel Middlesex) ha dimostrato in passato di saperci fare e di saper sopportare la tensione: nel 1999 ha battuto sia Kafelnikov (che all’epoca era n°2 del mondo) che Safin e l’anno scorso si è imposto 11-9 al quinto con il tedesco Prinosil prima di perdere il suo unico incontro nella competizione contro Kohlmann, ma a risultato acquisito.
Il canovaccio della sfida è scontato: Arthurs serve e attacca, Escudé risponde e cerca di infilarlo. Entrambi amano accorciare gli scambi, ciascuno alla sua maniera. Il canguro balza verso la rete, il galletto tenta di beccarlo. Dopo due tie-break che non spezzano l’equilibrio, Escudé sale in cattedra e toglie il tempo all’australiano. “Fossi nato altrove, chissà? Anche da n°27 del mondo, avrei avuto maggiori attenzioni. Ma in Francia la storia l’hanno già fatta altri prima di me e questa Coppa è il mio Everest, la montagna a cui ho dedicato le attenzioni di un’intera stagione. Quando ho messo a segno l’ultimo passante le immagini si sono aggrovigliate nella mia testa e non capivo più niente” dirà Nicolas davanti ai microfoni non prima di essere portato in trionfo dai compagni. Intanto Wayne piange la disperazione sua e dei 15.000 sugli spalti dentro il telo. Il giorno dopo si metteranno in luce soprattutto gli errori tattici di Fitzgerald (era meglio il duro, superficie su cui Hewitt aveva costruito la sua scalata alla vetta del ranking, e Rafter doveva essere risparmiato per l’ultimo singolare, dato che in passato aveva battuto Escudé quattro volte su quattro). Ma la verità è che, per arrivare alla città di Dio al centro del labirinto, bisogna avere fede e non distrarsi mai. Nemmeno nell’ultimo mezzo metro. Nemmeno su quell’ultimo disperato attacco di Arthurs.
E poco importa se è domenica. Per Nicolas Escudé questo è un mercoledì da leoni.