C’erano una volta Arthur Ashe, Jimmy Connors, John McEnroe e Vitas Gerulaitis, a cui prontamente seguirono Andre Agassi, Michael Chang, Jim Courier e Pete Sampras. Poi improvvisamente per il tennis maschile a stelle e strisce è arrivato il nulla: una sorta di vero e proprio medioevo tennistico. L’ultimo successo americano in un torneo del Grande Slam risale all’ormai lontano 2003, quando un giovane Roddick riuscì a conquistare gli US Open inserendosi tra l’Era di Sampras e Agassi ed il dominio di Federer e Nadal. Parliamoci chiaro: Roddick non è stato certo un campionissimo, ma era un buon giocatore che ha approfittato di una temporanea mancanza di fuoriclasse ai vertici del tennis mondiale in un periodo in cui appunto onesti operai della racchetta quali Hewitt, Ferrero, Costa, Gaudio o Johansson avevano ancora la possibilità di vincere degli Slam. Con la crescita del marziano Federer, l’esplosione del fenomeno Nadal ed il successivo arrivo di Djokovic e Murray, il buon Roddick è stato relegato a ruolo di comprimario assestandosi tra la quinta e la decima posizione mondiale. Troppe le carenze nel rovescio del giocatore americano per consentirgli di competere con super campioni che fanno della solidità e completezza dei fondamentali uno dei loro principali punti di forza.
A tale proposito, sulla falsa riga di quanto avvenuto con Andy Roddick, sembra quasi che i coach americani si siano dimenticati di insegnare il rovescio ai propri allievi. Da Isner a Querrey, passando per Harrison, Sock e Johnson, nell’ultimo decennio gli USA hanno quasi esclusivamente prodotto giocatori il cui tennis fa perno solamente sulla potenza del servizio e del diritto a sventaglio. Il rovescio è praticamente inesistente e ciò rappresenta spesso un handicap troppo ampio da colmare contro avversari di un certo livello. Inoltre, i giocatori americani, un tempo leader assoluti nell’applicazione di programmi di training innovativi ed efficaci, sembrano oggi stranamente carenti dal punto di vista atletico, come se non dedicassero abbastanza cura alla preparazione fisica. Si tratta solamente di pigrizia da parte di alcuni tennisti oppure c’è qualcosa che non ha funzionato nelle metodologie di training utilizzate dalla USTA per lo sviluppo dei giocatori durante l’ultimo decennio? Prendiamo ad esempio Harrison e Sock, molto promettenti da teenager e poi arenatisi nel periodo tra i 20 e i 25 anni a causa delle già citate carenze tecniche e soprattutto di una preparazione atletica che lascia molto a desiderare. I due atleti sembrano spesso fuori forma, per non dire sovrappeso.
Secondo il team di esperti composto da John e Patrick McEnroe, Chris Evert, Brad Gilbert, Mary Joe Fernandez e Pam Shriver per la rete sportiva ESPN, il peggio dovrebbe essere comunque superato ed il tennis americano sembra essere finalmente pronto a rinascere ad altissimo livello. Sicuramente la stagione 2017 sarà fondamentale per capire se si tratta di vera gloria oppure tutto fumo e niente arrosto. Vediamo nel frattempo i quattro prospect più interessanti e maggiormente seguiti dalla stampa americana.
Taylor Fritz: classe 1997 e figlio di Kathy May, ex-giocatrice che raggiunse la top ten del ranking WTA negli anni settanta. Dopo un brillante percorso giovanile culminato con il successo agli US Open Junior del 2015, passa immediatamente a competere sul circuito ATP con dei sorprendenti risultati che nei primi mesi del 2016 lo catapultano all’interno dei primi 100 giocatori del mondo a soli 18 anni. Al terzo torneo ATP in carriera, raggiunge addirittura la finale di Memphis arrendendosi a Kei Nishikori per poi spingersi fino a quarti dell’ATP 500 di Acapulco la settimana successiva. Negli Slam perde sempre al primo turno sconfitto in cinque set dal più esperto connazionale Sock sia a Melbourne che a New York, da Wawrinka a Wimbledon e da Coric a Parigi. Ma poco importa. Il ragazzino ha tutto il tempo per imparare a gestire i match sulla lunga distanza del tre su cinque. Dotato di un gioco solido e completo anche se per il momento ancora molto “leggero”, il rovescio bimane è probabilmente il suo colpo migliore. Una volta completata la maturazione fisica, da lui si attendono importanti progressi dal punto di vista atletico: cruciale sarà il bienno 2017-2018 per capire se abbiamo di fronte un campione oppure un nuovo Ryan Harrison. Intanto, rispetto a Harrison e Sock, dal punto di vista tecnico Fritz è già sicuramente un giocatore più completo, per non parlare della solidità di applicazione mentale.
Frances Tiafoe: classe 1998, di lui si parla da quando a soli 15 anni diventa il più giovane campione dell’Orange Bowl della storia. Nel 2016 ottiene degli ottimi risultati a livello Challenger che lo portano a concludere l’anno a ridosso dei primi 100, tuttavia non sembra ancora pronto per competere a tempo pieno sul circuito ATP. Finora è riuscito a vincere solamente 2 partite su 11 disputate. Come la maggior parte degli atleti di colore, dal punto di vista fisico sembra essere già più avanti dei suoi coetanei, ma dal punto di vista mentale i margini di progresso sono immensi. Tecnicamente si distingue per la grande fluidità dei colpi e le interessanti geometrie di gioco. Sicuramente un grande talento, vedremo se sarà in grado di continuare a coltivare la legacy di Arthur Ashe e delle sorelle Williams.
Jared Donaldson: classe 1996, sicuramente meno brillante come junior rispetto a Fritz e Tiafoe, ma a livello Slam vanta già un paio di interessanti vittorie. Dopo una buona estate in cui si spinge fino agli ottavi del Masters 1000 canadese, agli US Open 2016 si qualifica per il tabellone principale senza cedere un set e al primo turno stende al tappeto David Goffin, numero 14 del mondo. Vince anche la prova del nove contro Troicki (numero 32) al secondo turno per poi arrendersi al servizio di Ivo Karlovic al terzo. Ormai pronto per competere con i grandi della racchetta, sarà interessante seguirne i progressi durante i primi mesi del 2017 a partire già dalla trasferta australiana. La sensazione è che tecnicamente si tratti di un giocatore con un potenziale da top 20, ma difficilmente abbiamo di fronte un campionissimo.
Stefan Kozlov: classe 1998, nativo della Repubblica di Macedonia ma cresciuto negli USA a partire dall’età di tre anni. Fa il suo debutto sul circuito ATP nel 2013 a soli 15 anni, quando a Newport perde un match tiratissimo contro il polacco Michal Przysiezny, un navigato top 100 con quasi il doppio dei suoi anni. Il ragazzino incanta pubblico e addetti ai lavori con il suo tennis lineare e geometrico e da allora la stampa americana gli affibia l’etichetta di “the next big thing”. Nel 2014 perde da Zverev la finale dell’Australian Open Junior e dal connazionale Noah Rubin quella di Wimbledon, risultati che gli consentono di issarsi fino al secondo posto del ranking mondiale juniores. Dopo un 2015 in cui cerca di farsi strada a livello Challenger con discreti risultati, per la prima vittoria ATP deve attendere fino a giugno 2016 quando a ‘s-Hertogenbosch sconfigge il giapponese Nishioka per poi ripetersi contro il connazionale Johnson ed issarsi fino ai quarti di finale. Un po’ poco comunque per un giocatore dotato del suo talento. Ormai superato nell’immaginario collettivo della stampa americana da Fritz e Tiafoe, vedremo se nel 2017 Kozlov sarà in grado di riscattarsi.
Lorenzo Dellagiovanna