Comincio subito dal giudizio conclusivo e sintetico, e poi proverò ad argomentarlo: non sono stati dei buoni Australian Open per il tennis femminile.
Secondo me il torneo ha offerto le cose migliori non tanto sul piano tecnico, quanto su quello umano, con il ritorno alla ribalta di giocatrici che hanno attraversato momenti difficili e che si sono ritrovate proprio a Melbourne. Mi riferisco a Venus Williams, Mirjana Lucic, Mona Barthel, Sorana Cirstea, Ashleigh Barty. Tutte hanno rischiato di essere perse per il tennis, e invece hanno poi saputo risalire la china per ripresentarsi a giocare ad alti livelli nel grande palcoscenico dello Slam.
Nell’articolo della prossima settimana vorrei tornare sulle diverse giocatrici protagoniste di questi Australian Open; ma per oggi credo si debba cominciare dagli aspetti tecnici più generali. Che nell’insieme sono stati, secondo me, complessivamente deludenti. Per non dire preoccupanti.
È vero che l’esito di un torneo di tennis è determinato anche da fattori episodici e contingenti (il sorteggio, gli head to head etc), ma resta il fatto che alcune questioni sono da considerarsi strutturali. E sono quelle che delineano una crisi del vertice del movimento femminile.
– Condizioni di gioco più rapide?
Comincio da un tema che secondo me non ha influito sulla qualità di gioco, ma che aiuta a spiegare come mai sia emersa soprattutto una certa tipologia di giocatrici. Probabilmente agli Australian Open 2017 ci sono state condizioni di gioco più veloci del solito. Vale a dire: campi più rapidi, oppure palle più rapide. Oppure entrambe le cose. In passato avevo provato a utilizzare un criterio di misurazione della velocità: ne avevo parlato QUI. Ecco la tabella aggiornata per quanto riguarda il Major australiano a livello femminile:
Ricordo che secondo questa ipotesi più è bassa la percentuale in giallo, più le condizioni di gioco dovrebbero essere rapide. Se ci fidiamo di questo criterio, gli Australian Open femminili sono effettivamente risultati i più veloci degli ultimi dieci anni, ma non in modo significativamente superiore rispetto al 2016.
Gli organizzatori negano ci sia stato un deliberato aumento della velocità dei campi, però il torneo potrebbe essere risultato più rapido rispetto a quelli di preparazione. Lo dico perché durante i primi match ho avuto una sensazione sorprendente: sembrava che le giocatrici faticassero a gestire i tempi di gioco, con la palla che arrivava più veloce di quanto atteso. Quindi: difficoltà in fase di risposta, difficoltà in uscita dal servizio, e in generale nella gestione delle traiettorie, con timing non perfettamente centrati, che spesso obbligavano ad aggiustamenti nell’ultima frazione di secondo per recuperare movimenti impostati senza la solita sicurezza.
Questa sensazione non è affatto nuova, anzi, abbiamo imparato a conoscerla bene, perché si vive ogni anno nella nella fase di adattamento all’erba dopo il periodo sulla terra rossa. Che però accadesse tra i tornei di preparazione australiani e lo Slam, non penso fosse stato messo in conto.
E se valutiamo i numeri in dettaglio risulta che sia stato proprio il primo turno quello che ha favorito di più chi serviva (31,68%); visto che campi e palle non cambiano tra un turno e l’altro, si potrebbe pensare che sia stata la difficoltà ad assorbire la differenza rispetto ai tornei delle settimane precedenti a incidere ulteriormente.
– Gli Australian Open della potenza
Dunque Melbourne come Wimbledon? In parte sì, ma con alcuni distinguo.
Dovessi dire che cosa soprattutto differenzia il cemento rapido rispetto all’erba (superficie notoriamente molto rapida) evidenzierei questo: il cemento richiede meno doti di agilità e di accuratezza nel movimento. Sui prati sono estremamente importanti gli equilibri negli spostamenti e la capacità di colpire traiettorie basse e sfuggenti. Sul cemento, invece, si può scaricare a terra senza particolari ostacoli tutta la potenza. Che molto spesso può fare la differenza.
Probabile conseguenza di questa situazione è stata la prevalenza nelle fasi finali di una specifica tipologia di giocatrici: molto forti fisicamente, più della media. Questa è in generale una tendenza del tennis contemporaneo, ma a Melbourne è risultata ancora più accentuata.
Superata la scrematura dei primi turni, chi al momento dei pronostici avesse privilegiato le giocatrici più alte e potenti avrebbe quasi sempre avuto ragione. Ecco le ultime otto tenniste approdate ai quarti di finale (in ordine di tabellone): Vandeweghe, Muguruza, Venus, Pavlyuchenkova, Pliskova, Lucic, Konta, Serena.
Di queste otto giocatrici solo Pliskova non ha spiccate caratteristiche di forza: nel suo caso la combinazione tra timing superiore e 1,86 di statura (quindi leve lunghe) le permette di produrre comunque notevole velocità di palla.
a pagina due: Venus e Serena Williams, le finaliste