Li abbiamo ammirati, uno contro l’altro, per la trentacinquesima volta. Il tennista più amato nel globo terracqueo contro la chele mancina che infiniti lutti addusse ai suoi tifosi. Supporter di Roger Federer che, come qualunque categoria, si dividono in varie frange. Tutti adorano la bellezza del suo gioco, lo ammirano per quante volte è saputo risorgere dopo stagioni che sembravano definitive (2013 e 2016 su tutte). La differenza sostanziale tra le varie fazioni la fa il rapporto con gli avversari. C’è chi si concentra su Roger, fa un tifo sfrenato ma se perde si limita a riconoscere i meriti altrui, peraltro senza nemmeno soffermarsi troppo sull’avversario, tanto al prossimo giro il Re tornerà a deliziarli. C’è chi, più tecnico, viviseziona il match perso e si chiede dove l’amato svizzero sia stato deficitario, cosa avrebbe dovuto fare per impensierire di più quel muro invalicabile di Murray o quell’uomo di gomma che si chiama Novak Djokovic. Poi t’imbatti in Behemoth, la bestia. Quello là, che con quel dritto uncinato mancino ha costantemente massacrato il rovescio a una mano di Roger. E qui, se ami Federer, devi fare uno sforzo sovrumano per non odiare Rafael Nadal. Perché proprio sulla loro rivalità si annida l’unico vero ostacolo che lo separa dal titolo di Greatest of All Time (il famigerato GOAT). Eloquente, e difficile da contrastare, la nota obiezione di Rino Tommasi: “Come facciamo a definire Federer il più grande di sempre, quando non siamo neppure certi che sia stato il più grande della sua epoca?”. Tutto questo per colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del mancino di Manacor.
A questo punto i Federiani si dividono tra chi (cerca di) accettare la situazione, riconoscendo i meriti agonistici, mentali, umani e anche tecnici di Rafa e chi proprio non si rassegna all’idea che il più grande, l’incarnazione del tennis perfetto, non trovi quasi mai il modo per battere la sua nemesi. E allora, le tonalità di colori dell’odio verso Nadal possono variare, ma l’ossessione per quello là rimane. Si è scritto che questi tifosi, i più estremisti, non sono sportivi, godono a vedere perdere il nemico, spiegano le sue vittorie (contro qualunque avversario) per la fortuna e gli errori commessi da chi stava dall’altra parte della rete. Critiche corrette. Molto meno corretto, invece, non comprendere le notti insonni a domandarsi perché Roger non dia mai una lezione a Rafa, non capire il livello di esasperazione raggiunto ogni volta che la speranza viene puntualmente disillusa. In fondo, l’odio è una delle caratteristiche più umane che ci siano. Federer è una divinità del tennis, i federiani totalitari sono dei normalissimi umani. Imperfetti, fallaci, mortali. Proviamo a entrare nella mente di uno di loro, per capirlo meglio, per comprendere cosa abbia provato davvero alla vigilia dell’ultimo magnifico Federer-Nadal, durante e dopo il match, per apprezzare tutte le sfaccettature dei suoi stati d’animo.
LA VIGILIA E LA MEMORIA CHE NON PERDONA
Sabato sera, dopo una tranquilla bevuta in compagnia, il nostro sfegatato federiano era rientrato a casa al settimo cielo per la 28° finale Slam di Roger a quasi 36 primavere, 14 anni dopo il successo di Wimbledon 2003. Poi, chiedendosi se avrebbe davvero potuto farcela, gli era crollato il mondo addosso: lo stesso pomeriggio aveva incontrato gli occhi divertiti di suo padre, al quale di tennis non è mai fregato niente, a ricordargli che lo sa persino lui che quello l’ha sempre legnato. Inutile girarci attorno, può perdere da chiunque, specie nell’ultimo periodo, persino da Troicki nell’ultimo match del suo 2016, ma quando incontra Federer si trasforma. Viene da un buon torneo, ma anche quando è fuori forma contro il Re diventa una furia… e Roger un agnellino. La sua mente allora era corsa a giovedì mattina, quando con l’amico Antonio ancora non si capacitavano dell’ennesima rinascita dell’infinito campione svizzero, dopo la grande semifinale con Wawrinka. La scelta di prendersi una mattinata di ferie non poteva essere stata più felice, si trovavano a metà tra la trance agonistica e la commozione. Era però eloquente e indelebile negli occhi del compare quel velo di malinconia, mista ad angoscia: “Speriamo che Grigor ci faccia il regalo, sennò sappiamo già come va a finire”. Gliel’aveva detto in tempi non sospetti anche Luca, a metà Australian Open, dopo che Fed aveva annichilito Berdych e appena prima che ricordasse a Mischa Zverev (“Dio lo benedica!”) che no, i miracoli non si ripetono.