Ci sarebbe molto da dire sul perché, Serena a parte, nessuna top ten è riuscita ad approdare in semifinale. Per ragioni di spazio ho deciso di occuparmi solo delle due finaliste degli ultimi US Open, Kerber e Pliskova. E di concludere con una pensiero su Johanna Konta.
Angelique Kerber
Angelique Kerber tornava a distanza di dodici mesi nel torneo dove ha forse giocato la miglior partita della carriera: la finale del 2016 vinta contro Serena Williams. Un match che aveva dato il via a una stagione straordinaria, che l’aveva portata al numero uno del mondo, a vincere un secondo Slam (Us Open), e a raggiungere la finale anche a Wimbledon e alle Olimpiadi.
Non era facile, a 29 anni (compiuti durante il torneo), confermarsi all’altezza di uno status al quale non era abituata. Una situazione che sicuramente aggiungeva ulteriore pressione a quella che normalmente le giocatrici già vivono nel Major di inizio stagione. Dopo avere inciampato cedendo un paio di set di nei primi turni (contro Tsurenko e Witthoeft), al primo ostacolo serio Angelique è definitamente caduta: 2-6 3-6 da Vandeweghe.
Secondo me la sconfitta ha mostrato una debolezza di Kerber che era già emersa, anche se raramente, in passato: quando Angelique non riesce ad accendersi agonisticamente rimane molto lontana dal suo miglior tennis. Era accaduto ad esempio nella semifinale di Wimbledon 2012 persa contro Agnieszka Radwanska (3-6, 4-6).
Eppure in linea teorica Vandeweghe si presentava come un tipo di giocatrice ideale da affrontare: una giocatrice non troppo creativa, che propone un tennis potente e di attacco, ma che soffre se il palleggio si allunga. Caratteristiche che avrebbero dovuto permettere a Kerber di appoggiarsi ai colpi dell’avversaria, ma anche di sfoderare le sue grandi capacità difensive, con l’obiettivo di prevalere allungando il braccio di ferro. Invece senza mettere in campo il “fuoco” agonistico ha finito per subire l’iniziativa di CoCo: Angelique è sembrata sperduta, incapace di dare il meglio di sé.
Con questa controprestazione non ha solo perso il titolo, ma anche il numero uno del ranking. Chissà che la condizione di numero due non la sollevi dalle responsabilità eccessive, facilitandole il ritorno a livelli più alti.
Karolina Pliskova
Un po’ come Kerber, anche Pliskova ha mostrato di soffrire quando scende in campo da netta favorita nei grandi appuntamenti. In fondo agli US Open 2016 aveva offerto le migliori prestazioni contro Venus e Serena Williams: due leggende, che oltre tutto avevano il pubblico di casa a favore. Se Pliskova avesse perso credo che nessuno si sarebbe meravigliato; e forse proprio per questo Karolina era riuscita a prevalere.
Ricordo che Pliskova prima di Flushing Meadows vantava il poco invidiabile record di top ten incapace di superare il terzo turno negli Slam. Sicuramente la finale di New York ha significato un fondamentale passo in avanti, ma forse le manca ancora un ultimo gradino nel processo di maturazione per arrivare ad affermarsi ad alti livelli e confermare le aspettative.
A Melbourne Karolina aveva già rischiato moltissimo contro Jelena Ostapenko; sotto 2-5 nel terzo set, si era salvata in parte per la sua bravura (quando ormai non aveva più nulla da perdere), in parte con l’aiuto del braccino dell’avversaria. A mio avviso lo stesso atteggiamento titubante si è rivelato fatale nei quarti contro Mirjana Lucic: molto spesso Pliskova ha giocato seconde di servizio troppo conservative, su cui l’avversaria poteva subito attaccare; ma anche nella conduzione del palleggio di frequente ha rinunciato a spingere la palla come sa fare.
Normalmente Karolina pratica un tennis difficile, con poco topspin, e con la palla che passa radente alla rete: i rischi sono connaturati al suo gioco. Invece secondo me a Melbourne ha finito per eccedere in senso opposto; e la troppa prudenza (il timore, mi verrebbe da dire) si è ritorta contro di lei. È stato perfino sorprendente – e ha dato la misura di quanto sia alto il suo potenziale – vederla rimanere in corsa contro avversarie ispirate e pericolose come Ostapenko e Lucic pur giocando con il freno a mano tirato. In queste occasioni si è sacrificata in difesa, mostrando di essere cresciuta molto nelle fasi di contenimento; ma secondo me per aspirare ai grandi successi non può snaturare le proprie caratteristiche: deve trovare il coraggio di esprimere sempre tutta se stessa attraverso il tennis di attacco che l’ha portata fra le prime del mondo.
Johanna Konta
Ci sarebbero tanti altre giocatrici e tante altre storie da raccontare: come sono andate le italiane, come sono andate le giovanissime (che forse hanno sofferto per un eccesso di aspettative dopo i progressi del 2016). Ma ho deciso di chiudere con un breve ragionamento su Johanna Konta.
Vincitrice a Sydney, si è presentata a Melbourne in grande forma; e tutto sommato fra la top ten deluse forse è quella che meno si può rimproverare, visto che è stata sconfitta da Serena Williams. Però c’è un aspetto che mi ha lasciato perplesso. Un aspetto un po’ difficile da dimostrare, ma che provo ugualmente a spiegare.
Agli Us Open 2015, il primo Slam in cui si è messa in luce, Konta aveva perso un match in due set contro Petra Kvitova per 7-5, 6-3. Eppure secondo me per molti tratti aveva giocato meglio di Petra.
Ai successivi Australian Open 2016 in semifinale Kerber l’aveva regolata per con un 7-5, 6-2 che mi era sembrato un po’ troppo severo rispetto ai valori visti in campo.
Agli ultimi Australian Open anche Serena l’ha battuta con un 6-2, 6-3 che secondo me è risultato ancora una volta estremamente duro rispetto al confronto visto in campo. Per molti tratti di partita Johanna aveva davvero dato filo da torcere a Serena, ma a conti fatti il punteggio non lo ha testimoniato.
Dunque una situazione che sembra ripetersi. Come è possibile? Ci ho riflettuto un po’ e avanzo questa ipotesi: Konta è una giocatrice che è maturata tardi, e ha passato diverse stagioni in posizioni di classifica molto lontane dai vertici. Poi è cresciuta esponenzialmente, ma forse sul piano tattico e agonistico non è cresciuta altrettanto, e sta ancora imparando a interpretare i grandi match. E visto che nel tennis non tutti i quindici sono uguali, basta non esprimersi al meglio in due-tre passaggi chiave per essere puniti oltre misura dal punteggio. Ma probabilmente si tratta di una fase transitoria: se saprà giocare ad alti livelli con regolarità diventerà sempre più difficile batterla anche nelle occasioni più importanti.