Fognini, il principe azzurro: «Lo ammetto, ho avuto paura» (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)
Il giorno dopo c’è da smaltire la sbornia. Di adrenalina, di fatica, di stress. Il giorno dopo, Fabio Fognini è ancora a Buenos Aires, dove si è consumato lo psicodramma in cinque atti dell’Italia contro i campioni in carica argentini. Un fine settimana partito col vantaggio di due a zero e finito con Fabio a rimontare da due set sotto nel match decisivo per il passaggio ai quarti contro il Belgio. Lunedì la gioia e il bacio alla terra rossa del Parque Sarmiento, poi una dedica speciale via Twitter: «Per te FF17» e poi cuoricini e l’emoji di un bebè. Quello che arriverà a maggio da Flavia Pennetta, sposata l’11 giugno dello scorso anno a Santa Maria di Leuca: «Una dedica alla famiglia, che per me è il valore più importante. E anche per Flavia», dice Fabio appena sveglio e con la voce roca, dopo una giornata passata a dormire e recuperare da quella fatica immane, fisica e mentale: «Sono sotto un treno — ammette —, per la stanchezza e per la paura che ho avuto.
Perché è inutile negarlo: la paura c’è stata. Prima come squadra quando da quasi 3-0 ci siamo ritrovarti a ripartire, poi da solo quando ero sotto e non riuscivo a fare quel che volevo». Due set interminabili, dove tutto sembrava perduto. Ma Fognini non ha mai smesso di crederci, nonostante le evidenti difficoltà a entrare in partita: «All’inizio Pella è partito forte, molto solido rispetto al match con Lorenzi. Io invece ero imballato. lo sbagliavo e lui no, e poi tutto quel casino e il cáldo. Tante cose ti passano per la mente, io ho solo cercato di restare concentrato, ho detto al capitano di lasciarmi giocare. Poi pian piano mi sono sciolto e quando ho vinto il set la mia fiducia è salita e sono andato avanti con la forza dei nervi». Gli stessi nervi tesi che avrà avuto Flavia sul divano di casa. Lei sa come si vive fin match teso e importante. «Quando l’ho sentita mi ha detto che non ha avuto il coraggio di vedere il match point, l’ha visto dopo».
Flavia lo sa, suo marito non rinuncerebbe mai alla Nazionale: «Lui adora giocare la Davis, non riesce a prendere la decisione di non giocare questo evento nonostante in alcuni momenti un giocatore dovrebbe pensare più a se stesso — ha detto Flavia alla tv dopo il match —. Fabio non ci rinuncerà mai». Fognini conferma: «Mi ha detto: vai e gioca”. L’azzurro non si veste per soldi ma per passione e io quando gioco per il mio paese do tutto, immagino si sia visto». Ora Fognini, nuovamente numero uno italiano, torna a concentrarsi su di se, la settimana prossima giocherà sempre nella capitale argentina l’Atp 250 sul rosso: «Devo cercare di recuperare e spero di avere tutto quel pubblico. Questa volta però dalla mia parte». Un pubblico molto focoso, tanto che anche Barazzutti gli ha fatto i complimenti per essere riuscito a mantenere la calma quando, ammettiamolo, tutti temevano che da un momento all’altro avrebbe perso la testa. E invece questa nuova versione di Fabio Fognini riesce a anche ad assorbire le provocazioni: «Ero preparato, gli argentini sono così, a volte qualcuno esagera poi magari si scusano sui social, ti fanno i complimenti».
Proprio come Diego Maradona, capo ultrà della curva del Parque Sarmiento: «Lui era scatenato, urlava, cantava, saltava, commentava». Poi Diego, da vero sportivo, è andato nello spogliatoio azzurro a complimentarsi coi vincitori: «Abbiamo chiacchierato e riso, ci siamo fatti le foto. Lui è un grande, una personalità agonistica monumentale, impossibile non restarne affascinati». Fabio è stato cosa bravo che anche il suo allenatore argentino, Franco Davin lo ha «perdonato». «Gli ho detto di non venire durante le partite perché poi non mi sarei sentito mentalmente libero. Oggi abbiamo pranzato insieme (…)
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Il declino della cara vecchia Coppa Davis (Gianni Clerici, La Repubblica)
Ho sentito più di un rumore, nel cimitero vicino a Longwood Tennis and Cricket Club di Chestnut Hill, a Boston. Erano il Dottor James Dwight e Dwight Davis che si rotolavano nelle loro tombe, per quanto sta accadendo alla loro creatura, la Coppa che porta il nome del secondo, Davis. La Coppa Davis potrebbe infatti scomparire, se non vengono apportate modifiche alla sua struttura o, peggio, anche in questo caso. Ricordo che la Coppa, prodotta dagli orafi della Shrimp Crump e Low, venne dapprima messa in palio per avvicinare le due aree degli Usa, Pacifico e Atlantico, allora troppo lontane per un interscambio di tennisti, e si chiamò International Lawn Tennis Championship, prima di prendere il nome di Davis, che divenne anche, guarda caso, sottosegretario americano alla Guerra. Subito dopo, nel 1900, si verificò il primo incontro con le Isole Britanniche, in cui gli americani dominarono una squadra B inglese, priva dei famosi Fratelli Doherty a causa di una presunta racial superiority ante Brexit. Allora il Tennis era un gioco aristocratico e/o alto borghese, si chiamava Lawn Tennis, tennis sull’erba, ed era diretto dalla ILTF, International Lawn Tennis Federation. Ora le cose sono cambiate, insieme alla Federazione Internazionale, che ha perso il Lawn, esistono dal 1968 i tornei chiamati Open, aperti a tutti, dilettanti e professionisti. Ma nel frattempo i dilettanti sono scomparsi. Sono nate due diverse organizzazioni, ATP (Association Tennis Players per gli uomini (1972) e WTA (Women Tennis Players per le donne (1973) che amministrano il gioco secondo regole spesso differenti.
Alla ITF sono rimasti i quattro grandi tornei detti Grand Slam, dotati di premi incredibili (i vincitori raccolgono un primo premio di circa 3 milioni ), e la Coppa Davis. Nonostante quest’anno alla Coppa si siano iscritte, nei turni competenti, ben 153 nazioni, facendone la manifestazione sportiva più frequentata dell’anno, la Davis sta morendo. Perché? Perché tra i primi 15 tennisti del mondo, solo uno, l’ex numero uno ATP, ora numero due, Nole Djokovic, ha giocato per il suo paese, affermando, come il giorno della vittoria serba nel 2010, che il suo paese, esistente da soli 11 anni, ha bisogno di essere amato e conosciuto.
Perché la Davis è poco onorata dai primi giocatori al mondo? Per due ragioni fondamentali. Perché dura 4 settimane l’anno, che confliggono con il densissimo calendario, e perché i premi della Federazione Internazionale vanno alle Federazioni Nazionali, che decidono come pagare i tennisti per la loro partecipazione. Il mio ex partner di doppio, il povero Philippe Chatrier, gran Presidente ITF, si era già posto il problema prima dell’elezione di Francesco Ricci Bitti, che nei 16 anni della sua direzione ne ha spesso parlato, senza risolverlo. Anche perché l’unica buona idea, nel casino strutturale contemporaneo, sarebbe stata la creazione di un Commissioner, così come ne esistono nei vari sport professionistici americani, e in una modifica dei due divergenti calendari. Purtroppo, nonostante l’esperienza commerciale (ex CEO delle racchette Head) del nuovo Presidente della ITF, l’americano Mike Haggerty, gli interessi opposti delle due parti in causa, la saturazione del calendario, la fame di denaro dei tennisti, saranno esiziali per la vecchia Davis (…)