“Il tennis non è altro che la gestione delle frustrazioni”. Se questo fugace spaccato di concretezza e cinismo applicato allo sport della racchetta è inaspettatamente farina di un sacco che, al contrario, ti aspetti colmo di improvvisazione e fantasia, allora sono innumerevoli le possibilità per le quali una conversazione, che odora di tennis e salsedine insieme, possa non risultare affatto scontata. È la magia tipica dei contrasti – l’estro incontrollabile che diventa rigore, per esempio – il leitmotiv di una chiacchierata scambiata con un personaggio a cui l’Italia del tennis deve molto. Troppo naif, in gioventù, per elevare a dominio lo straordinario talento generosamente concesso da madre natura; troppo focalizzato su nuovi e intriganti obiettivi, oggi, per non risultare contagioso in questa travolgente avventura. Con la racchetta, forse come non mai, quale indiscusso epicentro di un policromo microcosmo. Baciati dal tiepido sole che fa dell’inverno ligure qualcosa meritevole d’essere vissuto, abbiamo dunque incontrato, tra i playground del circolo di Sanremo che ne ospita da qualche tempo l’Accademia, il cittadino del mondo Diego Nargiso. Cinque lingue sciorinate tra un sorriso e l’altro con disarmante facilità e, ancora, cinque i continenti attraversati negli anni passati dal suo girovagare, tra tennis giocato, business e un’attualità che significa insegnamento, nella sua accezione più moderna e innovativa possibile. Se per la maggioranza degli appassionati con alle spalle almeno una trentina di primavere Nargiso fu soprattutto l’emblema dell’atleta incompiuto, bello e impossibile, per altri – insaziabili esteti e romantici il giusto – il napoletano d’origine controllata, oggi quarantaseienne, fu, al netto di vittorie e sconfitte, prima di tutto un genio bizzarro da amare così, nella buona e nella cattiva sorte. Un’anima agonistica altalenante catapultata in un nugolo di gelidi robot, programmati per non cedere mai un millimetro.
Docente pluridecorato dell’università dell’intermittenza nel mondo che per antonomasia non ammette soluzioni di continuità, il Nargiso giocatore – in un’epoca d’oro così propensa alle fortune di artisti e ‘volleatori’ di professione – ha saputo ritagliarsi, in quel suo incedere sinusoidale tra cielo e inferi, una carriera rispettabile. Spogliata dell’acuto folgorante, questo è vero, ma intrisa qua e là di squarci di innegabile eccellenza. Un curriculum che annovera, a riprova di una sostanziale longevità ad alti livelli, una trentina di apparizioni nelle prove dello Slam, un best ranking abbondantemente entro i primi cento giocatori del mondo e indimenticabili parentesi con il tricolore cucito sul petto. In quei week-end dal sapore antico nei quali anche al tennis è concesso il lusso di essere uno sport di squadra, tifo incluso. A quasi vent’anni dall’ultimo match giocato, ammiriamo quindi il Nargiso che non ti aspetti, circondato dall’entusiasmo contagioso di ragazzi e ragazze – a volte redarguiti, a volte coccolati – che di questa nobile e diabolica disciplina si spera possano rappresentare un domani nemmeno troppo lontano. Appesantito nella sagoma e con qualche capello in meno, l’ex Davisman azzurro dimostra, già dallo sguardo vigile con il quale presenzia ad una tipica sessione di lavoro sul campo, che qualche anno sabbatico di lontananza dalla scena non ne abbia intaccato competenza, acume e passione. Tutto felicemente immutato nella sostanza, ma ora nei panni mai banali di un allenatore che con mirabile umiltà si autodefinisce emergente. Proprio lui, l’anarchico bravo ad aggiudicarsi i Championships dei piccoli nell’anno di gloria di Pat Cash, che nell’arco della carriera da professionista, ironia della sorte, di allenatori ne ha cambiati a bizzeffe. Chi lo avrebbe mai detto. È il bello dello sport quale azzeccata metafora della vita di tutti i giorni, dove gli errori di gioventù finiscono sovente per elevarsi a ricchezza per il futuro. Inquadrato il contesto, nella città dei fiori che tradizionalmente intreccia le proprie vicende quotidiane al mondo dello sport, tra rally e biciclette veloci di primavera, quella che potete leggere nel seguito è la sintesi della nostra lunga conversazione.
Ciao Diego, intanto grazie per l’ospitalità. Dopo una lunga carriera da professionista come sei arrivato qui a Sanremo a far da guida a così tanti ragazzi?
Ho cominciato subito dopo la fine della mia carriera, nel 2000, a seguire Volandri, Pennetta e altri ragazzi attraverso una agenzia di management che però si occupava anche della scelta degli allenatori. Pur influendo su alcune scelte tecniche, essendo stato giocatore fino a poco tempo prima, non me la sentivo di passare l’intera giornata sul campo dopo tanti anni di professionismo, insomma avevo già dato abbastanza. Il mio ruolo era quindi prettamente manageriale. É successo poi che i nostri atleti siano cresciuti molto e siamo arrivati al punto che, per fare un buon lavoro, avrei dovuto seguirli anche in giro per i tornei. Ciò mi ha fatto fare un passo indietro e per una decina d’anni ho quindi scelto di fare altro. Con la mia famiglia, e fino al 2012, mi sono occupato di attività immobiliari ed energie rinnovabili quando un amico mi ha chiesto di guardare una ragazzina di ritorno da un’esperienza non molto fortunata con la Sanchez-Casal Tennis Academy e sono rientrato nel mondo del tennis. Questo appena iniziato è dunque il quinto anno da quando sono ripartito.
Qual è l’obiettivo principale di questa tua Academy?
Il mio obiettivo è quello di trasmettere ai giovani – oggi ne ho circa una ventina ma conto di salire ancora – la mia conoscenza e il mio metodo, acquisito grazie al fatto di aver avuto in carriera diversi allenatori di diverse provenienze. Ho ricevuto negli anni un insegnamento molto variegato, oggi raccolgo un po’ tutte queste esperienze e le racchiudo nel mio credo e nella mia filosofia. Come professionista sono cresciuto in Italia, poi in Francia, poi ancora in Italia, poi negli Stati Uniti e infine in Spagna, prima di fare ritorno qui da noi. Alle mie esperienze positive, nel bagaglio aggiungo anche i miei tanti errori che cerco oggi di non far commettere ai ragazzi che alleno.
Effettivamente hai cambiato un sacco di tecnici. Toglimi una curiosità, Diego, eri un soggetto difficile da allenare al punto da farli scappare o invece eri tu stesso che ben presto ti stufavi di loro?
Sono sempre stato io a decidere perché intanto sono napoletano (ride) e mi piace cambiare. Poi c’è da dire che quando io credo in qualcosa allora la faccio con il massimo dell’impegno e ciò che riscontravo nei miei tecnici nell’allenare un’atleta difficile come in fondo lo sono stato io era – salvo rari casi – una progressiva mancanza di amore nei confronti del mio sport. Percepivo che il tecnico perdesse via via l’entusiasmo, la passione di cui io avevo fortemente bisogno. Dico ciò molto serenamente.
Affinché ciò non si ripeta oggi con i tuoi ragazzi come cerchi di comportarti?
Intanto mi metto in gioco solo se credo fermamente nel ragazzo che alleno. I giovani hanno continuamente bisogno di percepire che, nel tennis, si vince e si perde in due, che insieme – allenatore e giocatore – si è un’unica squadra. Non è affatto vero, come sono in molti a pensare, che l’allenatore incida poco nella formazione di un atleta, specialmente se non ancora affermato. Il coach ha un ruolo fondamentale nel processo di maturazione dei ragazzi. Se non è sufficientemente bravo ed esperto, ci sono talmente tante insidie, tante trappole da evitare lungo il cammino che il ragazzo che segue non arriva da nessuna parte.
Con quale criterio scegli i ragazzi per la tua scuola? In altre parole, come valuti il ‘materiale umano’ che di volta in volta hai a disposizione?
Materiale umano, ecco, ti sei già risposto. Umano nel senso stretto di umanità. Sai, i più grandi campioni della storia, nel tennis ma non solo, sono innanzitutto delle grandi persone, con valori importanti e dotati di una sensibilità importante. Umili, rispettosi e disciplinati, che trasmettono la volontà di apprendere e di mettersi agli ordini dell’allenatore. Quando riconosci in un aspirante tennista queste qualità allora puoi sperare di formare un campione. La priorità deve essere questa, ben prima del fisico e della tecnica che sono importanti ma arrivano dopo. In generale, comunque, quando ti capita per le mani un talento vero lo riconosci subito, questione di intuito. Lo vedi già da come cammina, dal modo che ha di porsi, da come sta in campo. Loro ovviamente ancora non lo sanno ma dentro sono già dei campioni. Di questi esempi ne ho visti a decine. A Napoli per esempio, quando organizzavo il Challenger, ho invitato gente come Safin, Mantilla, Ferrero, Gasquet. In quel momento non avevano ancora la classifica ma non era difficile capirne il potenziale di prim’ordine.
Com’è organizzata la scuola? In qualche battuta ci puoi dare un’indicazione di un aspetto che a tuo avviso più la caratterizza?
Innanzitutto mi dedico solo al cosiddetto ‘alto rendimento’, ovvero alleno esclusivamente ragazzi che vogliono intraprendere la strada che può portare al professionismo. Devono avere una certa attitudine, la volontà ferrea di inseguire un sogno. Mi sento un po’ come il chirurgo estetico, prima di operare mi accerto che il ragazzo sia assolutamente consapevole della scelta che sta per compiere e delle conseguenze che ne scaturiscono. Parliamo quindi molto. Poi al nostro interno ci organizziamo in gruppi di lavoro dinamici, sempre diversi. Io sono contro i gruppi fissi, spingo per l’adattamento continuo. Ti faccio un esempio, qui da noi tutti giocano e si confrontano contro tutti, indistintamente. Maschi contro femmine, forti contro deboli. Il motivo è che chiunque si possa aver di fronte possa diventare allenante. Per diventare campioni la prima cosa che il tennis richiede è di sapersi adattare alle mille situazioni che possono verificarsi. Per farci trovare preparati al momento del bisogno, ogni settimana all’interno della scuola cambiamo tutto: orari, compagni, superfici dei campi, clima, stanze, letti, ambienti, cuscini, persone con cui interagire. Tutto deve poter essere improvvisamente variato. Il professionista dovrà infatti sapere fare questo. Essere italiani in ciò non aiuta. Qui da noi si vive bene, si mangia bene, abbiamo posti meravigliosi, tutto funziona. Quando siamo proiettati in situazioni di difficoltà allora tendiamo a non rendere al meglio perché, a differenza di altri popoli con un background meno agiato, mal ci adattiamo. Il mio obiettivo allora è di mettere l’atleta sempre in situazioni di non comfort, o peggio, di frustrazione. Proprio per sviluppare questa capacità di profondo adattamento. Il tennis non è altro che la gestione delle frustrazioni. Ti dico una cosa: il 90% delle volte che un giocatore scende in campo sente dentro di sé qualcosa che non va. Può essere un colpo, il vento, il sole, il pubblico. Ecco, bisogna imparare quell’atteggiamento che ti aiuta a vincere anche nelle situazioni meno favorevoli.
In questo momento il tuo uomo di punta è Lorenzo Giustino, un atleta che è apparso in netta crescita, tecnica e di risultati, negli ultimi mesi. Cosa ci racconti di lui?
Sì, Lorenzo è il nostro giocatore più forte, il fiore all’occhiello della mia Accademia. Per me, ad oggi, ha espresso solo il 30% del suo potenziale. Lo seguo da un anno e mezzo, siamo già andati a best ranking entro i primi duecento del mono e, soprattutto, abbiamo migliorato in quanto a completezza tecnica e tattica. Lorenzo quando è arrivato non voleva giocare sul veloce ed oggi invece ci gioca serenamente più di metà stagione e vi ha battuto senza grossi problemi anche qualche giocatore di miglior classifica. Dobbiamo aspettare la sua definitiva maturazione in termini di ascolto e disciplina. Dal punto di vista tecnico abbiamo imparato a rispondere con i piedi vicino alla riga di fondo. Abbiamo imparato ad utilizzare con profitto i cambi di ritmo con il rovescio tagliato, colpo che prima di arrivare qui da noi non sapeva utilizzare, e abbiamo fatto un passo avanti sul campo in chiave offensiva. Inoltre, tutto ciò che è sensibilità lo abbiamo migliorato in maniera esponenziale, gioco di volo incluso.
Argomento delicato. Giocare a tennis, a certi livelli, costa molto e in molti casi la famiglia fatica a sostenere le spese connesse all’attività del figlio. Cosa ne pensi?
Vero. Con la mia società, proprio per questo motivo, mi sto adoperando per garantire borse di studio per i ragazzi più meritevoli. Il primo ad averne usufruito, per esempio, è stato Gianluca Mager che adesso ha preso un’altra strada. Ora è la volta di un’altra promessa, Andrea Basso, e anche di alcuni più piccoli. Chi ha le potenzialità economiche per farlo, grazie alla famiglia, paga il dovuto, agli altri – purtroppo per ora solo in alcuni casi – diamo la possibilità di ottenere borse per sostenersi negli allenamenti e nelle trasferte. A riguardo, poi, spero a breve di poter ufficializzare degli sponsor importanti grazie ai quali migliorare ulteriormente questa importante iniziativa.
Siamo ad inizio stagione. Tra un anno esatto ti sentiresti soddisfatto della tua attività se…?
Vorrei poter dire di aver tracciato per i miei ragazzi, attraverso il lavoro, la strada migliore per salire di livello. Io vivo di questo. Ho smesso di operare nel campo dell’edilizia proprio per dedicare a ciò tutto me stesso. Ho scoperto che l’insegnamento è la cosa che più mi piace fare in assoluto. Non me lo sarei mai aspettato di poter diventare un giorno un allenatore anche se mia mamma dice che fin da piccolo avevo la propensione a fare il ‘professorino’. In effetti hai ragione tu, per il tipo di giocatore che sono stato lo avrebbero detto in pochi. Comunque non voglio che i miei ragazzi giochino come facevo io (ride). Mi ha fatto bene staccare dal mondo del tennis per 8 anni perché ho la certezza che se ho ripreso non è stato per il fatto di dover trovare qualcosa da fare ma esclusivamente per il piacere di farlo. Ho realizzato che insegnare è un po’ una vocazione e tenendomi impegnato, tra tutto, anche 18 ore al giorno non potrebbe essere altrimenti. A livello personale mi impegno per diventare un vero allenatore, cosa che ancora non sono, perché ho cominciato solo 5 anni fa. Chi è il più grande di tutti? Senza dubbio Nick Bollettieri, grazie alla sua incredibile capacità di comunicare con il suo giocatore. Se pensi da dove è partito…
Con tutti questi allenatori d’eccellenza che hai avuto e con il talento di cui eri innegabilmente dotato, col senno del poi pensi che avresti potuto ottenere più risultati da giocatore?
É una domanda che mi fanno in tanti e io rispondo sempre allo stesso modo. Credo di essere stato un tennista strappato ad altri sport. Da ragazzino qualsiasi sport facessi avevo una buona riuscita e, tra questi, il tennis non era quello che più si sposava con le mie caratteristiche, soprattutto mentali. La mia più grande difficoltà era quella di essere continuo. Un tennista, invece, deve stare sul pezzo per 8 ore al giorno in allenamento e per 3 ore di fila in partita e io avevo un problema reale a prolungare nel tempo l’attenzione. Uno sport che sarebbe stato perfetto per me – dove tra l’altro ero forte da bambino – era lo sci, perché in soli 2 minuti avrei potuto concentrare tutto il meglio di me. Ti dirò, per come sono fatto io caratterialmente e per questa mia discontinuità che ho avuto negli allenamenti e sul campo ho già fatto tanto…
Abnegazione negli allenamenti, dunque. Quando hai modo di scorgere nei tuoi ragazzi qualche comportamento simile a quelli che caratterizzavano il Nargiso giocatore, tendenzialmente ti arrabbi o proprio per questo sei più propenso a comprendere?
Mi arrabbio come una bestia però li capisco (ride). A loro dico sempre che se ci sono riuscito io, con la mia discontinuità, ci possono riuscire benissimo anche loro. Forse non sono diventato il giocatore che avrei voluto e che in molti si sarebbero aspettati, ma in fin dei conti ho fatto quasi 30 prove dello Slam, il che significa aver fatto 7-8 anni di carriera tra i 100 giocatori più forti al mondo. Molti, anche tra gli addetti ai lavori, troppo spesso si dimenticano quanto sia difficile essere tra le migliori 100 persone sul pianeta nel sapere fare qualcosa. Trattasi di eccellenza, in fondo…