In un’epoca in cui la maggior parte delle tenniste sembra raggiungere l’apice della carriera dopo i 25 anni, arrivare in top ten a 21 non è sicuramente un cattivo risultato. Tuttavia, il 2016 di Madison Keys, con quattro ottavi di finali in altrettante prove dello Slam, ha lasciato gran parte del pubblico e dei media americani con l’amaro in bocca.
Dopo gli exploit del 2015 con l’inaspettata semifinale australiana raggiunta a spese di campionesse quali Venus Williams e Petra Kvitova, gli ottimi quarti di finale a Wimbledon (sconfitta in un grande match dalla Radwanska) e gli ottavi a Flushing Meadows (battuta da Serena Williams), era logico pensare che nel 2016 la Keys fosse ormai pronta per il salto di qualità definitivo. Anche perché, fin dall’esordio agli US Open 2011 appena sedicenne, l’immenso potenziale della tennista di Rock Island non è mai stato in discussione. Da allora, i media e gli analisti americani parlano di “quando Madison Keys sarà una grande campionessa” e non “se lo diventerà”.
In teoria la Keys avrebbe la possibilità di arrivare a giocare un tennis che è fuori dalla portata delle altre giocatrici, a patto però che riesca a massimizzare il suo incredibile potenziale. Per quanto riguarda la pura potenza dei fondamentali, Madison non è seconda a nessuna giocatrice, sorelle Williams comprese: la sua palla raggiunge spesso velocità da tennis maschile ed in particolare sulle superfici più rapide può davvero diventare ingiocabile per la maggior parte delle avversarie. Tuttavia, la potenza in se stessa serve a poco nel tennis se non dosata ed incanalata con intelligenza. Al Roland Garros di un paio di anni fa, la Keys è risultata in testa a tutte le statistiche che riguardavano potenza e velocità di palla dei fondamentali. Malgrado ciò, nel match di primo turno contro Sara Errani perse 6-1 al terzo senza tirare una palla in campo durante gli ultimi 20 minuti della partita.
Per diventare fortissima la Keys è chiamata innanzitutto a compiere importanti progressi dal punto di vista di gestione tattica del match. Partiamo dal servizio, il colpo cardine su cui si sviluppa tutto il gioco dell’americana: un movimento tecnicamente perfetto, una prima palla potente ed indirizzata con estrema facilità verso tutti gli angoli del rettangolo di battuta (esterna, al corpo o al centro) ed una solida seconda palla con tanto di kick da non consentire gli attacchi dell’avversaria. Chapeau, direbbero i francesi. E invece, per raggiungere gli standard altissimi di Serena Williams, la Keys dovrà imparare a distribuire l’efficacia di questo colpo in base alle situazioni di punteggio. Bello tirare un ace bomba o un servizio vincente a 200 km/h quando si serve sul 30-0 oppure sul 40-15. Ma se ci fate caso, la maggior parte degli ace o dei servizi vincenti della miglior Serena si concentrano nei momenti chiave della partita, in situazioni di punteggio delicate: palle break, parità o set point. Al momento, il servizio della Keys non è ancora così implacabile ed efficace nei momenti clou del match.
Per quanto riguarda la gestione della scambio, nel 2015 la Keys sembrava avviata a compiere interessanti progressi grazie alla guida di Lindsay Davenport, ex “giunone” del tennis in gonnella. La Davenport, campionessa di potenza e precisione ma atleticamente non proprio un fulmine per via dell’imponente stazza, era riuscita a salire sul tetto del mondo grazie alla capacità di giocare in zone di campo che le consentivano di comandare lo scambio senza esporsi ai propri limiti atletici in fatto di rapidità ed esplosività. E soprattutto era maestra nel misurare rischi e potenza dei colpi nei momenti più delicati del match. Insomma, la Davenport pareva essere il super-coach ideale per la Keys e la separazione tra le due avvenuta a fine 2015 sicuramente non ha giovato alla teen-ager americana. A quanto pare la Keys esprimeva la necessità di avere un coach che viaggiasse con lei a tempo pieno e con una disponibilità che la Davenport, mamma di quattro bambini, non era in grado di garantire per ovvi motivi famigliari. A quel punto per la Keys è cominciato un valzer di allenatori che ha influito sui magri risultati dei primi mesi della stagione 2016. Dopo periodi di prova fallimentari con Jesse Levine (un mediocre ex-giocatore ATP) e poi con Mats Wilander, in primavera la Keys si è affidata alle cure dell’esperto Thomas Hogstedt, in passato già coach di Sharapova, Li Na, Halep e Bouchard. Il tanto sospirato ingresso in top ten è così arrivato grazie al successo sull’erba di Birmingham, le finali nei Premier 5 di Roma e Montreal e le semifinali di Pechino e Rio, dove però ha mancato il podio perdendo lo spareggio per la medaglia di bronzo con la Kvitova. Nonostante questa serie di risultati positivi, bruciano però le continue sconfitte con rivali come Kerber, Halep e Radwanska: ottime giocatrici, ma di certo non dei fenomeni. Sicuramente avversarie che l’americana deve imparare a battere regolarmente se vuole salire in classifiche ed ambire a titoli importanti.
Proprio durante la off-season di fine 2016 sono arrivate due importanti news: la riconciliazione con la Davenport che diventerà coach a tempo pieno sostituendosi a Hogstedt e il forfait all’Australian Open per via della riabilitazione al polso sinistro operato in artroscopia a novembre. Il 2017 non si è aperto sotto auspici migliori, anzi, in effetti non si è proprio aperto perché Madison deve ancora fare il suo esordio in stagione. Il dolore al polso sembra non essere ancora sparito del tutto. Con i rientri in campo di Sharapova e Azarenka, previsti rispettivamente per aprile e mesi estivi, e ci auguriamo anche della sfortunata Kvitova, il circuito WTA ha avviato la sua caccia a una nuova carismatica regina, anche se Serena sembra avere tutte le intenzioni di mantenere il trono appena riconquistato. E se Keys vuole avanzare la sua candidatura, dovrà rientrare presto in campo. E mostrarci di cosa è davvero capace.
Lorenzo Dellagiovanna