da Rotterdam, il nostro inviato
Lo abbiamo visto sciogliersi in un pianto liberatorio a Sydney, a inizio anno, mentre insieme ai suoi figli Lenny e Mils si faceva fotografare con il trofeo: il primo della sua carriera, a trentatrè anni. Quando a venti iniziava a farsi un nome, batteva Agassi e arrivava in finale a Washington: “Da lì ho pensato potesse essere tutto facile, mi sono accompagnato a persone non affidabili. Ho imparato dai miei errori però”. Gilles Muller è uno degli ultimi interpreti rimasti del serve and volley: mancino come Feliciano Lopez ma certamente meno appariscente, con quel passo un po’ sbilenco e l’espressione a volte malinconica, sta vivendo una seconda giovinezza che lo ha portato al best ranking di 28 ATP. Ma garantisce che “non è per forza questo il punto più alto dove voglio arrivare”. Lo abbiamo incontrato a Rotterdam, dove ad un tavolino della luminosa sala stampa ci ha raccontato di se stesso a tutto tondo: il rapporto con il suo paese, il suo tennis particolare, il resto della sua carriera.
Iniziamo dalla fine. Questa è probabilmente la domanda che ti sarai sentito fare di più: ti abbiamo visto molto emozionato durante la premiazione a Sydney. Quanto conta per te aver vinto il titolo?
Sicuramente moltissimo. Prima di tutto perché ho dovuto aspettare molto tempo, ho sempre sognato di vincere un torneo. Sentivo che se avessi smesso senza averne mai vinto uno sarebbe stata una carriera incompleta quindi ho sempre lavorato per ottenerlo. I miei figli erano lì ed è significato molto, era quello che sognavo. Anche ricevere il trofeo da Rod Laver, è qualcosa che non dimenticherò mai. Tutte queste cose sommate lo hanno reso un momento molto emozionante.
Credi che questo successo potrebbe aiutarti ad avere più fiducia? Subito dopo hai vinto il primo turno a Melbourne contro Fritz, che non era proprio un esordio facilissimo. Hai perso con Raonic giocando una buona partita. Può servirti come spinta per il resto della stagione e magari della tua carriera?
Sicuramente mi ha aiutato a scrollarmi molta pressione dalle spalle. Puoi immaginare quanta ne abbia sentita prima della finale, era di fatto la prima che giocavo da favorito. Mi è servito a dire “ok, ce l’ho fatta, sono più libero”. Non è mai stata una questione di fiducia, anche lo scorso anno ho giocato due finali, e s e vedi i miei risultati dopo Sydney, la vittoria non ha avuto un grosso impatto sul mio gioco. Ho giocato bene a Sofia, qui sono al secondon turno. Sono sempre piuttosto in fiducia, sono convinto che posso essere pericoloso in qualsiasi occasione e se sono in buone condizioni fisiche posso battere chiunque. Quindi non credo sia l’aver vinto un torneo ad essere fondamentale per la mia fiducia.
Hai raggiunto il tuo best ranking (28 ATP) a gennaio. Hai comunque 33 anni, ti sei fissato qualche obiettivo da adesso in avanti?
Sarebbe troppo facile dire “vediamo cosa succede, a caso”. È sempre necessario cercare di migliorarsi. Oggi sono al numero 28, non credo che questo debba rimanere il mio miglior piazzamento. Né mi sono prefissato un numero da raggiungere, quello mi metterebbe soltanto pressione. Cerco di alzarmi ogni giorno sfidandomi ma anche divertendomi: sarebbe un problema se non sentissi di dover lavorare ancora per migliorare.
Provieni da una delle nazioni più piccole del mondo. Come ci si sente ad essere una personalità importante, un punto di riferimento per la tua patria? Ti mette pressione, ti rende orgoglioso?
Direi che ha vantaggi e svantaggi. È bello essere di fatto l’unico a poter avere tutto il supporto, posso giocare sempre Coppa Davis e Olimpiadi e per uno sportivo significa molto avere il sostegno di un comitato olimpico, è una grande motivazione. L’altro lato della medaglia è proprio essere da soli: non c’è nessuno che sposti l’attenzione da te, che ti stimoli a migliorare. Se vedi il tabellone della maggior parte dei tornei è così, ad esempio qui ci sono cinque francesi e ognuno cerca di essere migliore dell’altro, che serve da mordente.
Nel tuo team hai fatto entrare Benjamin Balleret, che è monegasco e si è ritirato da poco quindi sa cosa vuol dire. Che rapporto hai con lui?Ti è di aiuto avere qualcuno che abbia idea di cosa significhi venire da un paese molto piccolo?
Non credo sia ormai più così rilevante: poteva essere un problema quando iniziai, la pressione di una nazione intera, per quanto piccola: ora credo di avere l’esperienza per poterla gestire. Lui ha avuto un percorso simile sotto questo aspetto, magari, ma non credo possa aiutarmi. Non è una pressione simile a quella che ha dovuto sopportare Andy Murray prima di vincere Wimbledon. Avere Benjamin nel team mi aiuta perché è un mio grande amico, siamo coetanei e abbiamo giocato i tornei Juniores insieme. Gli ho chiesto di seguirmi perché mi piace avere varietà in chi mi aiuta, quindi divido l’anno tra lui e il mio coach storico, che mi segue da sette anni ormai (Alexandre Lisiecki, ndr).
Hai un gioco che può definirsi ormai raro per il circuito. Lo avverti quando sei in campo, senti di essere qualcosa di non comune?
Sì, senz’altro. È un tipo di gioco che sta andando via via perdendosi, i tennisti della nuova generazione giocano da fondo, servono bene e atleticamente sono preparatissimi, non sbagliano praticamente mai e coprono benissimo il campo. Quindi credo che per me sia positivo giocare un tipo di tennis che non si vede praticamente mai: un mancino che serve bene, scende a rete e attacca anche in risposta, mi aiuta ad essere imprevedibile perché nessuno ormai ci è abituato. Sono contento, a me piace il gioco vecchio stile.
L’ultima forse è la più complicata. La prima volta che ho avuto la possibilità di vederti dal vivo fu nel 2003, finale del Challenger di Napoli. Perdesti contro Gasquet, quasi quindici anni fa. Se pensi a questi quindici anni, quali sono le cose che più ti rendono felice, e quali quelle di cui sei meno soddisfatto?
Posso dire che ci sono stati molti alti e bassi nella mia carriera. Prima di tutto sono contento di essere ancora qui a giocare. Quindici anni sono un lasso di tempo piuttosto lungo, molti giocatori forse avrebbero smesso di fronte a grossi infortuni o grandi difficoltà. Non è stato facile, anche io a volte ho pensato di averne abbastanza. Sono molto orgoglioso di essere ancora nel circuito, è stato finora un percorso molto lungo ma sono ancora molto entusiasta. Cose di cui non sono contento? Difficile dirlo, non mi piace dire di avere rimpianti. Credo però che da giovane, diciamo intorno ai ventuno anni quando vinsi contro Agassi e raggiunsi la mia prima finale (Washington 2004, perse contro Hewitt), presi delle decisioni sbagliate. A quell’epoca non avevo le persone giuste a guidarmi o almeno indirizzarmi nella giusta direzione; ho iniziato a pensare che tutto mi sarebbe piovuto dal cielo, ho cominciato a lavorare meno intensamente, concentrarmi di meno. Ho dovuto poi pagarne le conseguenze, perché mi sono reso conto di quanto dare anche soltanto l’uno per cento in meno, faccia la differenza. Sono sceso in classifica e ho dovuto farne le spese. Credo di aver imparato la lezione però.