Il circuito ATP dispone di 9 Masters 1000. Montecarlo, Madrid, Roma, Rogers Cup, Cincinnati e Shanghai hanno un tabellone a 56 giocatori e risparmiano alle prime otto teste di serie un turno di gioco, assegnando loro un bye. Il torneo si svolge regolarmente nell’arco di una settimana e grazie a questo fattore la competizione entra subito nel vivo. Fa leggermente eccezione Parigi Bercy, il cui tabellone ridotto a 48 giocatori elargisce addirittura 8 bye in più (sono quindi i primi 16 a esordire direttamente al secondo turno) e “guida” decisamente i migliori facendoli esordire al mercoledì. Appartengono invece a una categoria speciale, una sorta di limbo sospeso tra il paradiso degli Slam e il “purgatorio” dei 1000, Indian Wells e Miami. Sebbene sia il torneo californiano ad essersi guadagnato i crismi di “quinto Slam”, per montepremi e tabellone i due tornei sono attualmente gemelli.
Si gioca sulla distanza di 10 giorni – inizio al mercoledì e chiusura di domenica – e il tabellone è conformato esattamente nello stesso modo: 96 giocatori, 64 di questi disputano regolarmente il primo turno mentre i migliori 32 esordiscono al secondo turno contro avversari non troppo fortunati. Montepremi identico, $6,993,450. 20 giorni di grande tennis che monopolizzano il mese di marzo e sconfinano appena in quello di aprile segnando il “vero” inizio della stagione tennistica, che poi passerà a svernare sulla terra battuta. Non è sempre stato così ovviamente. L’Open di Miami ha inaugurato questa formula atipica con l’avvento dell’ATP Tour nell’edizione 1990, anno della prima affermazione di Agassi (ne seguiranno altre cinque) sui campi di Key Biscayne. Per l’allora Lipton International Players Championships si era trattato di un ridimensionamento, poiché fino al 1989 il torneo veniva disputato con tabellone a 128 giocatori e incontri tutti al meglio dei cinque set: il classico formato Slam. Indian Wells ha invece allargato il campo partecipanti nel 2004, quando ancora il torneo si chiamava Pacific Life Open. In quell’anno la testa di serie n.2 Juan Carlos Ferrero si ritirava regalando un bye a Gaston Gaudio (quello a cui dovrebbe somigliare Fognini) e Federer batteva in finale Tim Henman in due set. La finale al meglio dei cinque sarebbe ricomparsa nelle due edizioni successive (entrambe ad appannaggio dello svizzero) per poi sparire definitivamente nel 2007. Assieme al cuore di qualche nostalgico.
Qualche anno di maxi-tabellone ce l’abbiamo alle spalle, insomma. Quel che inevitabilmente accade è un ridotto interesse per le prime giornate d’incontri, il cui programma propone un mix tra sfide che potremmo ritrovare nel tabellone di qualificazione di un altro Masters 1000 e comparse di wild card un po’ annacquate (o ancora troppo acerbe) che salutano il torneo con rammarico, e a volte neanche quello. Tra i qualificati serpeggia quasi la sensazione che il primo turno sia effettivamente una sorta di turno extra di qualificazione e non di rado questo favorisce il cammino di chi proviene dalla “cadetteria” del torneo, oltre che per l’assenza di avversari di rango anche per un livello di tensione meno accentuato. Sugli spalti non c’è ancora il pienone, l’atmosfera è rilassata, i big si vedono solo in allenamento. Lo scorso anno a Indian Wells furono in sette tra qualificati e lucky loser ad accedere al secondo turno, quest’anno siamo già a quota sei e altri quattro (tra cui il nostro Gaio) devono ancora scendere in campo.
Insomma, capita che in platea fino al sabato si intraveda qualche sbadiglio di troppo. Ieri Tomic ha provato a vivacizzare il torneo alla sua maniera, ovvero smettendo di giocare, mentre Fognini è sempre troppo attratto dalle difficoltà per non prendere sette game di fila da Kravchuk. Harrison evidentemente indispettito dalla condotta di Dzumhur – non è mai carino eliminare i padroni di casa, suvvia Damir – ha distrutto tre racchette e Nishioka si è confermato il migliore candidato (ok, magari adesso è ancora l’unico) al ruolo di “diversamente Nishi“. Rimane comunque la netta sensazione che lo start “ufficiale” del torneo sia una sorta di anteprima, un preludio, il gruppo spalla che cerca di massimizzare l’hype per l’inizio delle vere ostilità ma rischia tuttavia di spazientire. Come se Indian Wells volesse prepararci progressivamente all’impatto con i big, che da gennaio non vediamo gareggiare tutti assieme. Magari per lasciare tempo e modo di approfondire le architetture della Coachella Valley o di soffermarsi sull’abbondanza quasi impertinente delle palme – del resto Palm Springs dista 20 miglia scarse – o sulle peculiari condizioni climatiche caratterizzate da sbalzi di temperatura di cui non ci si deve però stupire: alla fine Indian Wells l’hanno piazzata proprio in mezzo al deserto.
In attesa dell’ultima giornata “soft” prima del debutto dei big forse c’è persino da ringraziare l’esistenza del formato combined che offre qualche spunto ulteriore, anche qui senza l’ausilio delle teste di serie. Donna Vekic e una wild card onorata, Eugenie Bouchard con il suo tentativo di surrogare la fragile tesi di Chris Evert, Naomi Osaka che schiera l’artiglieria pesante e per l’ennesima volta sembra dire “arrivo eh, il tempo di mettere a posto due cosine“. Chissà, forse Indian Wells è un torneo davvero troppo affascinante per avere il diritto di lamentarsene. Magari due paroline all’urna, ecco: Djokovic, del Potro, Kyrgios, Zverev, Nadal e Federer tutti a contendersi lo stesso quarto di finale…