Di Filip Krajnovic avevamo parlato proprio in questa rubrica poco più di un anno fa, dopo che il talentuoso tennista serbo, in seguito ad una seconda parte del 2015 abbastanza anonima in cui non aveva saputo dare continuità ai buoni risultati ottenuti nella prima parte della stagione, si era dichiarato pronto a puntare alla top 50.
Purtroppo, per il tennista di Sombor il 2016 è stato invece un altro anno da dimenticare, dato che ancora una volta è arrivato un infortunio, stavolta al polso, a scombinare i suoi piani e a costringerlo prima a giocare a singhiozzo e poi a saltare tutta l’ultima parte della stagione. Diciamo ancora una volta perché Filip aveva perso più di un anno per un infortunio alla spalla, che lo aveva anche costretto ad operarsi nel 2011. Poi altri piccoli infortuni muscolari, oltre a qualche difficoltà a convivere con la pressione per le aspettative nei suoi riguardi dopo i notevoli risultati ottenuti da junior, non gli avevano di fatto mai consentito di esprimersi con continuità. Appena ci era riuscito, come appunto nel periodo a cavallo tra il 2014 e d il 2015, eccolo dimostrare che c’era del vero nelle parole di Bollettieri, che lo aveva allevato nella sua Accademia e che lo aveva paragonato nientedimeno che ad Andre Agassi. Filip era chiaramente ben lontano dai livelli del Kid di Las Vegas, ma almeno entrava finalmente nella top 100, arrivando sino al n. 86 della classifica mondiale, suo best ranking.
Come detto però, nuovi problemi fisici – non bastasse il problema al polso, ad un certo punto ci si è mezzo anche un virus – hanno caratterizzato in negativo la stagione passata: tanto per capirci, ritiro al primo turno a Melbourne, forfait a Parigi e a Wimbledon. In agosto i quarti di finale al Challenger di Cordenons (sconfitto da Lorenzi) e la finale in quello di Manerbio (persa contro Leo Mayer) avevano fatto sperare che il peggio fosse passato, invece l’infortunio si è fatto sentire di nuovo e il ritiro a fine agosto al secondo turno del Challenger di Como ha segnato la chiusura anticipata della stagione del serbo. Uno stop ai box che da lì a breve lo avrebbe fatto sprofondare ben oltre la duecentesima posizione del ranking ATP e finire l’anno al n. 234. Sembra veramente la versione maschile dell’articolo di due settimane fa su Petra Martic, la talentuosa giocatrice croata la cui carriera è stata costellata da infortuni.
Ora, finalmente, anche questo acciacco è dietro le spalle ed il neo 25enne (ha festeggiato il compleanno lo scorso 27 febbraio) Krajinovic si è rimesso in pista per l’ennesima volta. E la semifinale raggiunta a fine febbraio al Challenger di Bergamo, sconfitto solo da un Jerzy Janowicz in gran spolvero, che gli ha permesso di recuperare almeno una dozzina di posizioni in classifica, appare benaugurante. Tra l’altro in un torneo che evoca in lui piacevoli ricordi, dato che fu uno dei primi a credere nel suo talento, assegnandogli una wild card quando era ancora diciassettenne, nel lontano 2009.
E proprio prima di questa nuova ripartenza, in un’intervista ad un periodico serbo, Krajinovic si è raccontato un po’. Dagli inizi a Sombor, la città della regione serba della Vojvodina in cui è nato, passando per Bradenton ed i sacrifici di un tennista professionista, fino alla grande amicizia con Novak Djokovic e al “sacro” gruppo WhatsApp dei tennisti serbi.
Quando hai deciso di dedicarti al tennis?
Provengo da una famiglia che ha dedicato buona parte della sua vita al tennis. Mio padre, anche se è un veterinario, desiderava che uno dei suoi tre figli entrasse nel modo del tennis. C’era già riuscito con mio fratello, che è diventato allenatore, però poi anch’io quando sono entrato per la prima volta in campo all’età di cinque anni, sin dai primi colpi ho mostrato di avere talento ed anche una grande voglia di continuare. Poi è arrivato il periodo dei duri allenamenti e degli ottimi risultati. A 14 anni sono andato a giocare l’Orange Bowl, dove l’IMG mi ha visto e mi ha messo subito sotto contratto. Dopo alcuni colloqui mi hanno offerto di trasferirmi negli USA, per vivere ed allenarmi all’Accademia di Bollettieri, la più famosa al mondo. Da una parte è stata molto dura, soprattutto all’inizio, dato che ero da solo e non conoscevo la lingua. Dall’altra parte, già allora avevo compreso che era la cosa giusta per me, e che dovevo essere forte. Avevo le migliori condizioni per allenarmi e crescere come giocatore: andavo a scuola e poi mi dedicavo esclusivamente al tennis. Gli allenamenti erano estremamente intensi, dal mattino al tardo pomeriggio. Sono stato a trovare i miei genitori a Sombor solo una volta in sei mesi.
Quanto è stato ed è importante per te il supporto della famiglia?
Senza la mia famiglia ancora oggi tutto questo non avrebbe senso. Qualche volta li vedo solo di velocità, di passaggio, ma per noi è sufficiente. Mi hanno inculcato i veri valori e l’educazione, oggi perciò ci bastano le poche ore che stiamo insieme per condividere le nostre sensazioni e darci sostegno reciproco. E il tempo che non passiamo insieme lo recuperiamo con le telefonate quotidiane.
Quanto sacrificio richiede lo sport professionistico?
Se vuole avere successo nella vita, una persona deve rinunciare a qualcosa. Ogni successo richiede dei sacrifici. Nel mio caso la famiglia, forse qualche hobby e l’uscire con gli amici. Dall’altro canto, ci sono gli aspetti positivi: faccio un bellissimo sport, che mi regala molte soddisfazioni e mi fa vivere dei bellissimi momenti, mi consente di viaggiare. Sto facendo quello che desidero. Non sono molte le persone che posso dire questo. Per questo da tempo ho deciso di custodire con cura quella che la natura mi ha regalato e di ricercarvi la mia felicità.
È possibile coltivare una vera amicizia tra tennisti?
Se una persona è pura di cuore, con tutti può instaurare un rapporto così. La domanda è piuttosto quanti veri amici si hanno davvero. L’ambiente sportivo è fantastico per il fatto che da un certo punto di vita si è una grande famiglia, perché si condividono gli stessi sforzi, gli stessi dubbi, le stesse vittorie e sconfitte. Ma quando entri in campo, non c’è più amicizia. Il tuo avversario è un rivale, anche se lo rispetti. Ecco, il rispetto non va mai dimenticato.
Cosa ti motiva dentro e fuori dal campo di gioco?
Lo spirito competitivo e l’amore per questo sport. Mi piace l’adrenalina che accompagna una vittoria, ma anche quella dopo una sconfitta, perché ha il suo ruolo – quello di rafforzarmi e spingermi a lavorare sui miei punti deboli, studiare i miei potenziali avversari. E poi faccio una vita sana. Dall’altra parte, se hai successo e sei tra i primi 100 al mondo, questo ti permette di avere una vita bella e confortevole.
Si sa che tu e Novak Djokovic siete molto amici. Qual’è stato il suo miglior consiglio?
Novak è un uomo giovane che si impegna con tutto se stesso in quello che fa e in cui è il migliore al mondo. Già solo avere l’opportunità di vedere il modo in cui vive e gioca, è di per sé un privilegio. Sono suo amico anche fuori dal campo e credo che lo saremmo stati anche senza il tennis.
I successi sul piano privato e professionale di cui sei più orgoglioso?
Il best ranking al n. 86 ATP è sicuramente il mio miglior risultato in carriera. Dal punto di vista personale, anche se collegato comunque alla professione, sono orgoglioso del fatto di non aver perso la voglia di tornare a giocare dopo l’infortunio, e qui la famiglia ha avuto di nuovo un ruolo importante. Chiaro che devo lavorare molto per rientrare, sia fisicamente che mentalmente.
Una volta hai rivelato che voi tennisti serbi avete un gruppo WhatsApp. Di cosa parlate in chat?
Non potete neanche immaginare quanti segreti ci confidiamo e quanto ci critichiamo tra di noi, ma anche il supporto che diamo l’un l’altro prima dei tornei. Basta dire che non sarebbe una buona cosa se perdessimo i nostri telefonini, per niente.
Dato che viaggi molto, sei di rado in Serbia. Cosa ti piace fare quando sei a casa? Ti piacere uscire la sera?
Vado un po’ in giro e mi diverto in compagnia della mia famiglia e degli amici. Oppure ascolto della musica o guardo dei film e mi metto a fantasticare un po’. Comunque noi atleti anche nei brevi periodi di riposo non ci fermiamo mai del tutto, continuiamo ad allenarci, anche se meno intensamente del solito. Perciò esco sempre meno la sera, perché ogni uscita, dal punto di vista degli allenamenti, mi fa fare tre passi indietro.
E Filip, lo si è capito, di passi indietro non ne vuole più fare. Dieci anni dopo essere volato dalla Serbia in Florida, ora vuole finalmente completare quel viaggio, e vedere fino a dove può arrivare.
Ovviamente, con lo smartphone nel borsone e la connessione Internet attiva…