Difficile spostare l’attenzione su papabili Underdogs quando poi, a rubare la scena, troviamo sempre lo stesso marziano: quel Roger Federer che a trentacinque anni suonati continua ad incantare le platee di tutto il globo con un tennis sempre in evoluzione, ma dal meraviglioso sapore antico. Eppure nel deserto californiano di Indian Wells una sorpresa, bella grossa anche, c’è stata eccome.
Elena Vesnina da Leopoli, trent’anni, fino ad oggi decisamente meglio come doppista (oro a Rio e WTA Finals lo scorso anno ma tanto altro in precedenza), si sveglia improvvisamente dal torpore di una carriera in singolare in cui è sempre mancato l’acuto vero e proprio, mettendo un sigillo di quelli che restano per sempre e che, vedi Flavia Pennetta che qui divenne regina tre anni fa, possono aprirti la mente verso traguardi fino a quel giorno forse soltanto lontanamente immaginati. Oggi è numero 13, suo best ranking, ma è destinata a salire ancora: è una giocatrice completa, che non si risparmia mai ed è unica nel suo genere – trovatene un’altra, oggi, così competitiva in singolare, doppio e doppio misto. La chiave di volta però, come spesso accade in questo sport, è tutta nella testa e il momento in cui ha capito quanto potenziale avesse da esprimere senza qualcuno con cui spartire la metà campo è stato a Wimbledon 2016. Lì, a Londra, Elena si è spinta fino alla semifinale dove d’accordo, è stata poi azzannata da Serena in meno di un’ora ma questo, francamente, è un altro discorso. E lo sarà sempre, per tutte, fin quando l’americana avrà voglia di impugnare una racchetta.
Tutto ciò premesso, considerando il precario stato di forma del circondario femminile e tenendo ben presente che l’appetito vien mangiando, pensare a un grande torneo di Vesnina anche qui a Miami sembra addirittura ragionevole. Folle forse, invece, arrivare addirittura ad ipotizzare una doppietta come riuscì a Graf (due volte), Klijsters e Azarenka l’anno scorso.
Sul versante maschile, dopo una lunga notte di riflessione, si è deciso di alzare l’asticella del rischio andando a focalizzare l’attenzione su Ryan Harrison: è lui, subito opposto al nostro Fognini – le cui attenzioni in questo momento sembrano, comprensibilmente, rivolte a cose più importanti (diventerà infatti padre a maggio) – in un primo turno tra (ex?) teste calde dal talento purissimo, l’underdog prescelto a Key Biscane. Eterna promessa a stelle e strisce, dopo il primo alloro ATP conquistato a Memphis un mese fa sembra finalmente essersi scrollato di dosso quel macigno che si portava dietro da quando, giovanissimo, fece le sue prime apparizioni nel circuito. Da Memphis in poi ha giocato poco e combinato ancora meno, centellinando le energie con l’obiettivo di farsi trovare pronto all’appuntamento con un torneo, il Miami Open, mai come quest’anno aperto a più che probabili sorprese: Murray e Djokovic assenti più o meno giustificati, Federer appagato dal trionfo ad Indian Wells probabilmente si godrà qualche giorno di sole con moglie e figli prima di rientrare a Basilea, gli altri (Nadal, Nishikori e compagnia) fanno sempre meno paura. Insomma, sembra ci siano tutte le condizioni per un’edizione dal finale inedito. Vincerà un giovane, il più bravo a cogliere il profumo della grande occasione.
Un altro motivo per prendere a cuore le sorti del ventiquattrenne nato a Shreveport, è che il grosso dei miglioramenti ammirati in questo inizio di stagione sono da ascrivere alla sapiente guida tecnica di Davide Sanguinetti e la cosa, non può non far piacere. L’ex azzurro, toscano di Viareggio, è convinto che il suo pupillo abbia ancora enormi margini di crescita (in termini di gioco e di classifica) e che l’imminente matrimonio contribuirà a dargli quella stabilità mentale necessaria alla definitiva consacrazione nell’Olimpo del grande tennis.
Unica perplessità, il fatto che Ryan e la sua dolce metà, abbiano scelto di convolare a nozze il prossimo 31 marzo: quel giorno, a Miami, andranno in scena le semifinali. Scaramanzia o scarsa fiducia? Non è dato saperlo. Ma sarebbe bello scoprirlo.
Jacopo Bartalucci