Congratulazioni. Come ci si sente ad essere la regina del Miami Open?
Credo si tratti di immergercisi dentro. Ora come ora sono impegnata a fare tante cose e quindi un po’ riesco a superare le emozioni. Mi ci crogiolerò quando rientrerò in albergo, mi divertirò con il mio team e mangerò del buon cibo
Sei considerata una delle giovani giocatrici più riflessive e intelligenti del circuito eppure ti ci è voluto del tempo prima di sfondare, il che è un po’ contraddittorio. Hai anche dichiarato a Brad Gilbert che ognuno ha il suo viaggio. Puoi dirci qualcosa del tuo viaggio?
Non sono certa che sia una contraddizione. Il mio viaggio è stato semplicemente diverso da quello di chiunque altro, così come ogni persona è diversa da un’altra. Per me è stata una questione di pazienza, tempo e determinazione per poter rimanere coerente con il mio processo di crescita, il mio programma di lavoro.
Ma forse eri troppo cerebrale? Avevi troppe qualità e dovevi rendertene conto? Era più una questione di maturità e di trovare il tuo gioco?
Credo fosse probabilmente una combinazione di tutte queste cose e di maturità. Dovevo fare determinate esperienze di vita dentro e fuori dal campo per fare di me stessa la giocatrice che sono e la persona che sono lontana dai campi di gioco. Molte cose vanno di pari passo quando si parla di sport. Non è solo un lavoro. È la tua vita. Il tuo modo di vivere. Devi crescere in tante diverse cose affinché tutto ciò poi si trasmetta anche in campo.
Parlaci delle tue origini. Genitori ungheresi, cresciuta in Australia e poi diventata cittadina britannica da ragazzina. Scelte fatte per il tennis? Oppure per via della famiglia?
Scelte dettate dalla vita. Nulla di pianificato. È successo naturalmente. Sono nata in Australia e nel 2005 ci siamo trasferiti in Gran Bretagna. Io per la verità iniziai ad allenarmi in Spagna ed i miei genitori andarono in Inghilterra. Il piano iniziale era che loro mi raggiungessero in Spagna, ma poi le cose cambiarono e fui io ad andare nel Regno Unito e a stabilirmi lì con loro. Fu un fatto naturale che diventassi cittadina britannica. Ci sono voluti circa sei o sette anni. Dove sono i giornalisti inglesi? Voi dovreste sapere quanto ci è voluto, ci siete stati lungo il mio viaggio. Dite che sono cinque anni? Ok. Voi c’eravate dall’inizio, quindi… Quella è la mia casa. Sì. Io sono britannica.
Due domande. La prima è quanto sia stato importante iniziare la partita in quel modo. Sei nella finale più importante che hai mai disputato e subito ti prendi un break di vantaggio. La seconda è che durante la cerimonia dalle inquadrature della telecamera sei sembrata profondamente immersa nei tuoi pensieri, come fossi in contemplazione. Ma forse no. Cosa passava per la tua mente in quell’attimo?
Per quanto concerne la prima domanda, per giocare contro una tennista come Caroline che è una grandissima atleta e può restare in campo per tutto il tempo che ci vuole, era necessario che io da subito imponessi il mio stile di gioco, affinché fosse chiaro nella mia mente il piano strategico e mi garantissi la possibilità di eseguirlo come volevo. Per quanto riguarda la seconda domanda, in realtà non pensavo a niente. Ero seduta e fissavo lo spazio. Subito dopo sono successe così tante cose che sembrava di essere in un vortice. Davvero, non mi passava niente per la testa (ride).
Nel mondo reale 25 anni sono pochi. Nel tennis però, si inizia così presto, soprattutto in campo femminile. Cosa ti ha sostenuto quando avevi 18-19-20-21-22 anni e non riuscivi a raggiungere grandi traguardi? Cosa ti ha fatto continuare per poi arrivare a questo punto?
Nella generazione precedente la mia e sino a qualche anno fa, le tenniste erano molto più giovani di sicuro. Penso che la crescita del tennis sotto il profilo fisico abbia rallentato il processo. Non direi che sono la più vecchia del circuito, anche se mi state facendo sentire così (ride). In fondo, non ero una cattiva giocatrice prima. Per molte persone raggiungere le prime 150, 200, 250 posizioni del mondo è un risultato incredibile e qualcosa di cui possono vantarsi, dicendo che erano tra le prime 150 al mondo in qualche cosa. Non molti possono dire la stessa cosa nel lavoro che fanno. Per questo ero già orgogliosa di ciò che avevo fatto prima. Anche da junior non ero male. Ero il numero 11 nel mondo. Non è un’anomalia. Ho continuato a fare ciò che amo, lavorare sodo. Ho avuto la fortuna di riuscire ad avere attorno a me gente molto in gamba nel corso degli anni. Più imparavo da loro, dalla loro saggezza e competenza, più ero in grado di reinvestire tutto ciò nelle partite che disputavo in maniera consistente. Questo è in parte il motivo per cui sono qui oggi.
Nella tua mente ci saranno i titoli del Grande Slam ora?
Credo di avere sempre avuto la convinzione di diventare campionessa di uno slam e la migliore al mondo. Ritengo che sia una convinzione comune a tutte le giocatrici. Senza di essa non potresti sentire le vittorie così dolci e le sconfitte così motivanti. Poi, per me si tratta di continuare a lavorare e non rendere le cose complicate. Voglio solo lavorare e tirar fuori il meglio da me stessa. Dovunque ciò mi porterà, sarà dove arriverò, ma confido che quando appenderò la racchetta al chiodo potrò dire di aver massimizzato le mie capacità e tutto ciò che ho dentro. Tutto, sì.
Hai fatto spesso ricorso al coaching, non solo nella partita odierna, ma in tutto il torneo. Di norma cosa ti dice? Inoltre a tuo avviso quali elementi di miglioramento ha apportato al tuo gioco?
Onestamente, nel corso di questa settimana l’ho consultato molto meno. Credo che nel momento in cui il coach scende in campo, porti con sé un punto di vista interessante e in più ti riassume le cose così come le vede dall’esterno. Come sappiamo, in campo si è molto coinvolti emotivamente in ciò che si fa e a volte si fa fatica a vedere con chiarezza le situazioni come invece dall’esterno. Per me è anche importante che mi faccia ridere e sorridere e riesca a tenere tutto nella giusta prospettiva assicurandosi che io mi stia divertendo.
Quale è stato per te il momento chiave della partita? Ritieni che questo successo costituisca un grande momento per il tennis in Gran Bretagna?
Non ritengo francamente che ci sia stato alcun momento chiave nell’incontro, sino alla sua conclusione. Ho cercato di non perdere l’attimo, rimanere nel match tutto il tempo necessario e divertirmi. Anche dopo che il match si è concluso mi aspettavo di dover fare altri punti! Spero infine che la trasmissione dell’incontro sia stata ottima a casa. “Ragazzi, avete fatto un buon lavoro?” (risate). Me lo auguro. Perché se lo è stata, sarà per noi una gran bella cosa. Promuoverà il tennis e, spero, spingerà più gente a giocare.