Ha 37 anni, Rohan Bopanna, quindici dei quali trascorsi in giro per il circuito: qualche capello bianco che inizia a raffreddargli la colorazione bruna, senza però intaccargli il genuino sorriso con cui si siede al centro della sala stampa della Ahoy Arena di Rotterdam, dove lo abbiamo incontrato e intervistato in esclusiva. Tuta nera sponsorizzata dalla sua fedelissima marca, una racchetta pronta da mandare ad incordare e un grosso orologio al polso sinistro, Bopanna è stato numero 3 del mondo quattro anni fa, quando fece semifinale a Wimbledon in coppia con Edouard Roger Vasselin. 15 titoli di categoria su 39 finali totali, raggiunse l’apice della notorietà nel 2010 quando iniziò una lunga collaborazione con Aisam-Ul Haq Qureshi, tennista pakistano con cui ha vinto in carriera 5 tornei, incluso il Masters 1000 di Parigi Bercy nel 2011: il sodalizio tra esponenti dei due paesi limitrofi, spesso coinvolti in sanguinose liti internazionali, portò entrambi a ricevere numerose onorificenze, anche in campo politico. Nel 2012 vinsero un ATP World Tour Award per il loro impegno umanitario, che come ci spiega Rohan, “prosegue anche se individualmente”.
Sei uno dei doppisti più esperti: molti dicono che il doppio sta morendo, perché i migliori singolaristi non lo giocano. Tu cosa pensi?
Onestamente non sono d’accordo: se vedi solo questa settimana io gioco con Berdych, che è top 10 da anni (perso in quarti di finale contro Granollers/Dodig). In gara ci sono Kohlschreiber, Verdasco, Lopez. Certo i migliori non giocano gli Slam perché preferiscono risparmiare energie dato il formato del tre su cinque, ma Dubai, Indian Wells, Miami, sono tutti tornei importanti che vedono i migliori giocare anche il doppio. Quindi non credo sia una specialità in via d’estinzione.
Il doppio è spesso usato come terreno per esperimenti: se pensi alla ultima edizione della Hopman Cup, dove addirittura è stato introdotto il sistema del Fast 4 (set vinti a quattro game invece che a sei, ndr). Credi possano essere introdotte ulteriori modifiche?
Credo ne siano state già introdotte abbastanza. Già soltanto il super tie-break nel set decisivo è stata una modifica importante, anche il killer point. Il formato è già piuttosto rapido, i match sono più corti, ad eccezione degli Slam. È divertente introdurre novità, ma il formato è già veloce così.
A te piace?
Credo ci siamo abituati tutti. Personalmente preferirei giocare tre set normali, ma da giocatori siamo tenuti ad adattarci a quello che ci viene proposto.
Hai avuto molti partner in doppio nel corso della tua carriera. Ne hai uno preferito o ti adatti a chiunque giochi con te?
Di certo giocare con Mahesh Bhupathi mi ha aiutato molto: avere un compagno della mia stessa nazionalità incide molto. Ho fatto bene all’inizio della mia carriera con Qureshi, abbiamo ottenuto ottimi risultati (finale agli US Open 2010, ndr), ma giocare con Mahesh mi ha insegnato molto. Lui aveva già moltissima esperienza, giocava il doppio ai livelli più alti già da molti anni: mi ha dato una grande mano a capire il mio gioco, comprendere come posizionarmi meglio in campo e affrontare situazioni nuove per me. Il fatto che fosse indiano è stato una grandissima componente, andare d’accordo fuori dal campo aiuta a rendere meglio in partita.
Hai parlato di Qureshi: avete scritto belle pagine, la storia dell’Indo-Pak Express. Hai ricevuto una discreta quantità di premi umanitari e correlati al tuo impegno sociale e umanitario. Sei ancora coinvolto in progetti del genere?
Sì, sia io che Aisam continuiamo a portare avanti le nostre idee anche se individualmente. Ora che non giochiamo più insieme è più difficile, ma continuiamo a renderci ambasciatori del messaggio che per anni abbiamo portato in giro. Io personalmente credo molto nel connubio sport-pace, lo sport deve essere un veicolo di comunicazione e convivenza. Nel circuito sono rappresentate moltissime nazioni, sentirci parte di una sola grande famiglia è meraviglioso. Come ho detto, adesso io per l’India e lui per il Pakistan cerchiamo di promuovere il tennis con un messaggio di collaborazione e tolleranza, non capisco perché non sia possibile raggiungere anche altri ambiti della vita quotidiana.
Parliamo dell’India. Sei sicuramente una personalità importante in una nazione che sta progredendo sempre di più: è una cosa che ti mette pressione, che ti rende orgoglioso? Forse entrambe le cose.
In realtà mi piace molto rappresentare il mio paese, giocare per i miei colori. Ho aperto da poco la mia accademia a Bangalore, e ho sempre ricevuto molto supporto dal mio stato e dal mio popolo. In generale lo sport mi ha dato tanto, quindi quando posso cerco sempre di fare qualcosa per gli altri, che poi è il motivo principale per cui ho aperto l’accademia. Quanto alla pressione, è qualcosa che mi aiuta a dare il meglio: con l’India ho un rapporto stupendo, ho molti amici a casa e quando ci vado cerco di rilassarmi con loro, mi aiuta a staccare la spina.
Immagino questa sia una domanda che ti hanno fatto decine di volte: come mai in India crescono giocatori di doppio fortissimi, ma in singolo non c’è tradizione?
Ci sono alcuni tennisti nei primi 200, adesso. La ragione principale per questo deficit è la federazione: non abbiamo supporto, non c’è un sistema, quindi quando i giocatori decidono di passare al professionismo e viaggiare, non hanno sponsor. La federazione non ci sostiene, facciamo molta più fatica ad emergere perché non è facile, anzi è quasi impossibile mantenersi con i Challenger attraverso i quali bisogna per forza iniziare: un giocatore magari arriva a 26, 27 anni senza avere abbastanza esperienza, e quindi sceglie di riciclarsi in doppio se ha ancora la passione e il desiderio di vivere di tennis. Quando questa situazione cambierà vedremo i risultati: è un’altra delle ragioni per cui ho aperta l’accademia, vorrei cominciare a coltivare i tennisti dalle basi, perché non abbiamo un sistema con cui possono crescere. Inoltre non abbiamo tornei: se escludi Chennai che fa parte del circuito maggiore, abbiamo forse due Challenger e un paio di Futures, quindi farsi le ossa in India è difficilissimo. In Spagna, Francia, Italia, ci sono tornei minori ogni settimana, per cui è più facile fare esperienza senza dover viaggiare troppo.
Quest’anno hai vinto il doppio a Chennai in coppia con un ragazzo indiano, Jeevan Nedunchezhiyan: la coppia finalista era composta da altri due giocatori indiani. Credi questo possa essere un buon messaggio pubblicitario per il tennis nel tuo paese?
Credo sia l’unico modo per sponsorizzare il tennis. Giocatori del luogo che partecipano al torneo locale e fanno bene: erano anni che Chennai non aveva finalisti indiani, e credo che quest’anno sia stato molto positivo. C’è stata anche una grande risposta, il pubblico è accorso numeroso apposta per noi, molti media hanno coperto l’evento. Jeevan è un ragazzo straordinario, un gran lavoratore. È bello sopratutto essere di ispirazione per i più giovani, singolaristi o doppisti che siano. Speriamo che l’esempio di Chennai possa portare nuovi appassionati.
Cosa pensi della IPTL? Mahesh ne è fondatore e promotore, l’India gioca un ruolo rilevante.
Credo sia stato incredibile costruire una cosa del genere. Un percorso itinerante in Asia, tanti top players che giocano in squadre. Mahesh c’è riuscito perché ha ancora un ottimo rapporto con tutti i giocatori. Lo scorso anno è stata dura per la promozione, ma so che lui si impegna moltissimo per la riuscita dell’evento. Ai giocatori piace, il formato e le squadre miste; sedere tutti sulla stessa panchina, fare il tifo gli uni per gli altri, è una dimensione completamente diversa dal normale. L’atmosfera è rilassata ma quando giochiamo lo facciamo per vincere. È un modo nuovo di intendere il tennis.
L’ultima magari è un po’ complicata: in Italia abbiamo una Federazione che ha spesso avuto rapporti tribolati con i propri giocatori. Sania Mirza ne ha avuti di difficili con la vostra, che come hai già detto è davvero poco presente. Quali idee proponi per una migliore relazione tra giocatori e Federazione?
La Federazione deve capire che sono ormai venticinque, trent’anni che non fa nulla per il tennis. Serve che qualcuno comprenda che è arrivato il momento di dire “Ok, dobbiamo cambiare qualcosa, impariamo da altri sistemi”. Da giocatori possiamo solo segnalare qualche nostra idea, ma la spinta decisiva deve essere quella federale: sono loro che hanno il potere di farlo. Non per me o per Sania, ma per le prossime generazioni: è fondamentale che tra vent’anni ci sia un sistema ed una struttura capace di confrontarsi con il resto del mondo. Avere un centro che raccolga allenatori e fisioterapisti, questo potrebbe fare la differenza. Dovremmo imparare dalle nazioni europee o dagli USA. È l’unico modo.