Sul declino del tennis svedese molto, forse tutto, è stato già scritto. Se in un primo momento – cioè nei primi anni novanta – s’era trattato di un declino malinteso, più apparente che reale, ricavato dalla contrapposizione del presente a un’età d’oro che andava consumandosi, con il passare degli anni la profezia si è autoavverata. Il declino del tennis svedese si è fatto sempre più reale, tangibile, fino al punto in cui il Paese è letteralmente scomparso dal panorama tennistico internazionale. Basta una rapida scorsa alle classifiche degli ultimi lustri per confermare l’impietosa diagnosi. Se all’inizio del 1997 i tennisti svedesi presenti in top 100 erano 10 (Enqvist, Edberg, Gustafsson, Bjorkman, Larsson, Johansson, Tillstrom, Kulti, Norman e Fredriksson), dieci anni dopo la schiera si era ridotta a tre elementi (Soderling, Bjorkman, Johansson); e dieci anni dopo ancora, cioè oggi, occorre scendere nei meandri del ranking ATP, fino alla posizione 186, per trovare un tennista svedese: il talento Next Gen Elias Ymer, appunto.
In una ricerca sull’evoluzione degli sport originariamente elitari nei Paesi scandinavi (a cura di S.S. Andersen e L.T. Ronglan, Nordic elite sport: same ambitions, different tracks, Universitetsforlaget, 2012), lo storico Johnny Wijk individua cinque fasi dello sviluppo del tennis in Svezia:
Fase 1: pochi professionisti, limitato supporto popolare, successi occasionali (fino agli anni ’50-’60).
Fase 2: il tennis penetra nelle masse popolari, cresce l’interesse generale nei suoi confronti, si affacciano sulla scena internazionale i primi grandi professionisti. Siamo alla fine degli anni ’60, il tennis svedese è rappresentato da Jan-Erik Lundquist e Ulf Schmidt, ex n. 3 e 8 del mondo.
Fase 3: il tennis è riconosciuto come sport popolare, incentivato dallo Stato, strutturato anche in termini organizzativi; nel contempo, si forma un ampio gruppo di professionisti in grado di conseguire risultati straordinari. Quelli di Bjorn Borg, naturalmente, ma anche di Anders Jarryd, a lungo numero uno al mondo di doppio e vincitore in questa veste di tutti i tornei dello Slam; quindi gli anni ’80 di Mats Wilander, Stefan Edberg, Kent Carlsson, Joakim Nystrom, Mikael Pernfors. Fra il 1974 e il 1992, la Svezia si aggiudica 24 slam su 76, conquista la Davis quattro volte, fa l’en plein dei tornei Slam nel 1988, impresa riuscita nell’era Open soltanto all’Australia di Rod Laver.
Fase 4: il tennis è ancora diffuso e strutturato come sport nazionale, ma il picco è ormai dietro le spalle. Una schiera di professionisti consegue risultati significativi ma inferiori rispetto all’età d’oro (Enqvist, Larsson, Bjorkman, tutti finalisti Slam, e Johansson, ultimo vincitore di un major della storia svedese, anno 2002). Nella seconda metà degli anni ‘90 il sistema si “normalizza” e non produce più nuovi talenti: l’ultimo sarà Soderling, due finali al Roland Garros.
Fase 5: il tennis subisce un’involuzione elitistica, sia in termini strutturali che di numero di professionisti, con risultati tutt’al più episodici.
Entrare nella quinta fase significa chiudere il cerchio e tornare al punto di partenza. Ed è quello che è toccato in sorte al tennis svedese, il cui successo, secondo Wijk, è stato un “successo spirale”, non dissimile da quello che ha caratterizzato altri sport nella storia svedese. Le ragioni di questo declino sono state ampiamente indagate. E sono in parte connesse a una contrazione, per usare un eufemismo, del sistema di “welfare tennistico”.
Certo, quando tramonta un’era di campioni si affievolisce lo spirito di emulazione, che è un fattore fondamentale dello sport popolare. E se nel frattempo mutano gli interessi sociali, soprattutto delle nuove generazioni, e nuovi sport divengono popolari attorno alle loro figure più rappresentative, ecco spiegata parte di questa parabola discendente. Ma c’è di più. Il cambiamento socioeconomico, come ha riconosciuto Johansson, si è riflesso limpidamente nell’ascesa e nella caduta del tennis svedese. Per lungo tempo, infatti, sono state le istituzioni pubbliche a sostenere attivamente questo sport, a partire dalla scuola. Un sistema di welfare esteso agli sport nazionali, come il tennis, ha consentito a giovani di modesta estrazione socioeconomica di raggiungere risultati straordinari.
Oggi le condizioni sono profondamente mutate. Per diventare professionisti occorrono risorse sempre più ingenti, e la presenza/assenza della sfera pubblica costituisce un fattore determinante. In Svezia le strutture sono diminuite o deteriorate, soprattutto nelle grandi città, e la Federazione non dispone delle risorse sufficienti per invertire la rotta. Tutto questo in una realtà in cui, per ragioni climatiche, si è costretti otto mesi l’anno ad allenarsi in strutture indoor. Come spiegano Ulf Roosvlad e Mats Holm in Game, Set, Match (add Editore, 2015), un volume che ricostruisce gli anni d’oro del tennis svedese, i campi da tennis un tempo edificati sono abbandonati alle erbacce oppure sono stati riconvertiti in campi di calcetto. Il pallone, non più la pallina, nell’epoca di Zlatan Ibrahimovic.
A investire sono invece i privati. La Svezia pullula di ottimi coach/ex giocatori da anni stabilmente fuori dal Paese (Peter Lundgren, Thomas Hogstedt, Max Wilander) o che sono rimasti in terra natìa costruendo la propria accademia. La prestigiosa Good to Great Academy, fondata da Norman insieme a Tillstrom e Kulti, è stata vista come il tentativo di arginare la “fuga di cervelli”, ovvero quella dei coach di valore che hanno scelto la strada dell’insegnamento all’estero. Edberg, invece, ha dato vita alla Ready Play Tennis Academy, insieme a Larsson e all’ex capitano della nazionale svedese Carl-Axel Hageskog. E così anche Thomas Johansson e Jonas Bjorkman hanno costruito la propria parrocchia, la Peak Tennis Accademy di Stoccolma.
In pochi anni, in sostanza, il sistema pubblico ha ceduto il passo a un sistema interamente privato, frastagliato in piccoli feudi. In un simile contesto si avverte maggiormente la mancanza di una Federazione in grado di coagulare e aggregare le migliore energie, ma soprattutto di dotarsi essa stessa di una grande accademia dove formare i talenti di oggi, soprattutto immigrati e figli della working class che oggi corrono dietro al pallone. Johannson invoca un nuovo welfare tennistico, capace di far tornare questo sport nelle scuole, nei sobborghi delle città, sugli schermi della televisione pubblica.
I talenti più fulgidi della nuova generazione svedese, i fratelli Elias e Mikail Ymer, sono cresciuti proprio all’accademia di Norman. Ed è a loro, naturalmente, che ci si affida per tentare di recuperare la radice, un tempo popolare, di questo sport.
Dopo un brillante 2014, chiuso con cinque titoli futures (tutti sul rosso, la superficie prediletta) e la prima vittoria in un torneo ATP (a Bastad, con Kukushkin), il 2015 per Elias, diciannovenne, è l’anno della svolta. Non tanto per la conquista del primo titolo challenger, a Caltanissetta, ma perché riesce nella singolare “impresa” di superare i tre turni di qualificazione di tutti e quattro i Major (l’ultimo svedese a Wimbledon, peraltro, era stato Soderling ben quattro anni prima). È un po’ il suo grande Slam. E se a questo si aggiunge che Elias è il più giovane svedese – dopo Wilander, nel 1982 – a vincere un match di Coppa Davis, tanto basta per riaccendere le speranze di un Paese letteralmente scomparso dal panorama tennistico. Quell’anno, Elias saluta l’accademia di Norman e si trasferisce a Barcellona per affidarsi alle cure di Galo Blanco. L’esperienza con il mentore di Milos Raonic volge però al termine nel giro di pochi mesi. Nel 2015 si metteva in luce anche il fratello minore, Mikael, nell’edizione di Wimbledon juniores. Dove lo svedese viene cortesemente invitato dopo essersi confuso sulla deadline per l’iscrizione. Mikael va avanti nel torneo senza cedere neppure un set, ma la sua marcia imperiosa si arresta sul più bello, e il trofeo va a Reilly Opelka.
Due gli anni di differenza fra Elias e Mikael (anche il terzo fratello, il piccolo Rafael, gioca a tennis), e caratteristiche di gioco piuttosto diverse. Elias è il prototipo dell’attaccante da fondo, che sfrutta il dritto come arma naturale ed essenziale per cercare costantemente di spostare l’avversario da entrambi i lati del campo. Dritto penetrante, grande lavoro di gambe a partire dal servizio, un’etica del lavoro più spiccata rispetto al fratello minore. Come ha riconosciuto lo stesso Johansson, Elias è più forte mentalmente ed è un grandissimo lavoratore. Mentre Mikael è più talentuoso, “ha una mano incredibile”, ma (forse non per caso) mostra un lato più pigro rispetto al fratello maggiore. Il quale, per Mikael, rappresenta un modello. Il rapporto fra i due è straordinario, quasi simbiotico: “quando Elias gioca bene, gioco bene anche io”.
Pochi mesi fa, sul duro indoor di Stoccolma, il fratello minore ha colpito gli osservatori impartendo una severa lezione di tennis – 6-2, 6-1 – nientemeno che a Verdasco (qui i momenti salienti del match): la sua prima, e finora unica, vittoria nel circuito maggiore.
In generale, rispetto a Elias, Mikael sembra imprimere maggiore rotazione nei fondamentali, e mostra un gioco, a prima vista, più vario ed eclettico, benché il servizio sia meno efficace rispetto a quello di Elias. Per il momento, questi due figli di immigrati etiopi (il papà, Wondwosen, è stato un corridore professionista, ed Elias conserva il legame con la sua terra d’origine parlando l’amarico, la lingua ufficiale del Paese) non hanno raccolto risultati significativi nel circuito maggiore. Un titolo ATP però è arrivato per entrambi. Ed è un titolo collettivo, conquistato a sorpresa lo scorso ottobre, nel 250 di Stoccolma, dove i due fratelli sono stati invitati a partecipare al torneo di doppio. Per Elias era la seconda partecipazione a un doppio a livello Atp, per Mikael il debutto. Il 6-1, 6-1 inflitto in finale alla coppia Pavic/Venus, è stato qualcosa di “irreale”, ha sottolineato con emozione Mikael.
Elias e Mikael Ymer navigano oggi in acque lontane dalle prime posizioni della Race to Milan (rispettivamente, 41 e 62, ma occhio anche all’altro Next Gen svedese, Carl Soderlund, n. 67). A prima vista la scalata sembra proibitiva ma, come già ripetuto altre volte in questa rubrica, il differenziale in termini di punti con la zona calda della Race non è allo stato attuale insormontabile. È sufficiente un exploit, anche a livello challenger, per insidiare le posizioni apparentemente più salde. Del resto, la stagione sul rosso è appena iniziata. Ed è proprio qui, adesso, che (soprattutto) Elias può puntare a scalare posizioni e a candidarsi per un posto alle finali di Milano. Che se mai dovesse arrivare, non servirà certo a uscire dalla “Fase 1” in cui il tennis svedese è ripiombato. Ma sarebbe senz’altro un traguardo meritato per uno dei talenti più brillanti di quella che chiamiamo Next Gen.
Claudio Tancredi Palma