da Roma, il nostro inviato
Pantaloncino comodo, t-shirt nera slim fit e un cappellino a rovescio, a domargli un ciuffo di capelli castani che spunta appena: a vederlo passeggiare per il Foro potrebbe tranquillamente essere scambiato per uno dei tanti giovanotti romani che affollano il Pietrangeli, cotti dal sole. E invece Henri Kontinen è il numero uno del mondo di doppio, da aprile: un finale di 2016 pauroso, con i successi a Bercy e alle Finals di Londra, proseguito con l’exploit definitivo a Melbourne quattro mesi fa. Sempre in coppia con l’australiano John Peers, ex compagno di Jamie Murray con cui aveva solo sfiorato il trionfo Slam a Wimbledon e New York, perdendo in finale nel 2015. “Siamo alla seconda stagione insieme; abbiamo avuto bisogno di un po’ di tempo per abituarci, sopratutto per trovare il feeling in campo. Direi che dopo un paio di mesi è andata bene“, sorride mentre si mette comodo sul divanetto della angusta stanza riservata ai PR dell’ATP. “L’ultimo anno è stato strepitoso, sopratutto la fine del 2016“. Un tennis apparentemente non spettacolare ma di altissima qualità con un rovescio a una mano da libri di scuola, e un servizio penetrante e efficace; un gioco pulito, come il suo viso fresco, puntinato di nei e sorrisi. Aveva iniziato a vincere in doppio già con il croato Marin Draganja, tre titoli e due finali tra 2014 e 2015: “Ma non cerco nulla in particolare in un compagno di team; forse un dettaglio può essere la posizione in campo. Mi piace giocare sul lato destro, il deuce court, quindi mi trovo bene con chi può gestire l’altro lato. Fuori dal campo mi piace frequentare persone positive, che abbiano i miei stessi obiettivi e voglia di vincere, è importante. Poi non si sa mai prima di iniziare a giocare insieme, come possono andare le cose. Magari due ottimi giocatori non si trovano bene per questioni che non sono prettamente tecniche“.
Nato a Helsinki ventisei anni fa, ma residente a Tallin, in Estonia, è cresciuto con Jarkko Nieminen come fonte di ispirazione: con lui ha vinto il primo dei suoi quattordici tornei, a Kitzbuhel nel 2014, in finale su Bracciali e Golubev. Un paese di persone riservate, come sembrerebbe essere lo stesso Henri prima di sciogliersi in una ironia velata, quasi britannica: “Un paese magnifico: siamo tutti timidi, quindi anche se mi riconoscono difficilmente si avvicinano, e a me va bene così“, alzando le sopracciglia mentre si prende in giro. “Certo che a volte capita che mi chiedano un autografo o una foto, ma non mi interessa essere una superstar. Quando torno a casa mi piace essere uno qualunque, come sono sempre stato anche nel tour“. Mentre ascolta le domande spalanca gli occhi chiari, coinvolto, concentrato come se tenesse molto a dare risposte non banali. Una serietà pacata, quasi piacevole, come se ancora non lo avessero informato di essere arrivato in vetta al ranking: “Non ho mai avuto obiettivi di ranking, ed essere numero uno non cambia la mia prospettiva. Certo vincere i tornei dello Slam è il massimo, ma ogni settimana mi sento bene quando sono in campo. La mia posizione in classifica non cambia il mio umore o il mio approccio al gioco, non gioco per il ranking: è la competizione, l’agonismo che mi ha sempre dato la carica“.
Senza questa grinta, di cui non traspare neanche un briciolo dall’aspetto nordico, difficilmente si sarebbe ripreso da un passato fatto di infortuni e rimpianti. Riconosciuto come uno dei migliori prospetti Junior, nel 2008 l’anno di grazia: titolo in doppio al Roland Garros e finale agli US Open, in coppia con l’indonesiano Cristopher Rungkat (chi?). A Wimbledon in singolare arriva a contendersi il titolo con il golden boy Dimitrov, perdendo in due set. Poi un ginocchio marcio e i continui infortuni, fino alla decisione di dedicarsi soltanto ad una specialità: “Ma il singolare non mi manca affatto. Forse tornerò a giocarci quando andrò in pensione in qualche circolo, ma non sono nemmeno sicuro” dice con una smorfia, suscitando l’ilarità di Fabienne Benoit, addetta alle comunicazioni ATP che supervisiona in silenzio. Quando si ferma a pensare al passato resta coerente, realista, senza lamentarsi di sogni infranti o speranza sopite: “Se dopo la finale di Wimbledon Junior mi avessero detto che sarei diventato numero uno in doppio, senza però giocare più in singolare, l’unica cosa che avrei chiesto sarebbe stata –Possiamo fare al contrario?-. È difficile dire come sarebbe andata senza infortuni, ovviamente all’epoca pensavo solo al singolo: dopo i problemi al ginocchio la priorità è diventata il tennis, a prescindere da quale disciplina. Poterlo definire il mio lavoro è un sogno“.
Una aggiustata al berretto, un po’ di stretching per le gambe fino a quel momento raccolte e incrociate. Essere numero uno è una bella responsabilità, sopratutto considerando che la specialità è considerata moribonda: “È questione di gusti, io guardo il doppio perché lo gioco. So che molti non lo farebbero mai: credo arriverà un momento in cui i giocatori si concentreranno sul doppio prima, sopratutto per questioni economiche. Abbiamo ragazzi che giocano il singolo fino ai trent’anni, prima di accorgersi che il loro stile si adatta meglio al doppio, ma penso che i giovani si avvicineranno alla disciplina prima. Ovviamente il singolare fa business, va in tv, è il più conosciuto. A me piace di più il doppio, ma non direi a nessuno di guardarlo e snobbare il singolare“. Il business è purtroppo vincolante, per quanto Henri ne sia apparentemente disinteressato: “È sempre una questione di business. Non mi lamento se i singolaristi prendono più soldi, lo capisco, è spettacolo. Certo, come in ogni ambito, se ci fossero più soldi saremmo tutti più contenti. Se non ci fossero stati i Bryan chissà in che condizioni sarebbe il doppio, per fortuna ci sono da parecchio tempo. Il prize money è collegato a tutta una serie di cose, se i gemelli non avessero vinto e costruito come hanno fatto, saremmo in condizioni ancora peggiori. Nel momento in cui hanno aiutato ad aumentare la popolarità della specialità, la considerazione, economica e televisiva, del doppio è progredita di conseguenza. Per me è come il ranking: non gioco per i soldi, quindi non mi lamento“. Va via ciondolante, dopo l’ultimo sorriso genuino con cui esclama “Thanks, and take care“: un numero uno qualunque, come piace a lui.