L’istantanea di quell’abbraccio sul centrale di Roma, rimbalzato di qui e di là per farci rimirare la correttezza nella tenzone tennistica, potrebbe un giorno essere la testimonianza della coltellata inferta a un vecchio Re. Se non altro ci ha permesso di togliere un po’ di polvere dagli almanacchi della precocità tennistica. Alexander Zverev, trionfatore al Foro Italico, è il più giovane a vincere un Masters 1000 dal 2007 (Miami Open, Djokovic). Il più giovane a vincere a Roma dal 2006 (Nadal, ça va sans dire). Il primo avversario più giovane di Nole a batterlo in una finale. Il primo tedesco a tornare in top 10 dai tempi di Rainer Schuettler (2003) e il primo a vincere un 1000 dopo Tommy Haas (Stoccarda 2001). Persino il primo tedesco a vincere a Roma: solo Haas e Becker prima di lui avevano raggiunto l’atto finale, raccogliendo poca gloria (e pochi game) contro Agassi e Sampras.
Tutto per la gioia feticista di chi vive a cavalcioni dei numeri e permette (gloria a loro) ai digiuni dell’aritmetica di avere qualcosa di cui discutere, che non sia la stucchevole trincea da cui guelfi e ghibellini degli Internazionali BNL d’Italia si lanciano palline da tennis sgonfie. Da una parte i sostenitori di Roma “quinto Slam”, dall’altra i detrattori patentati per cui si dovrebbe cedere il Masters 1000 a qualsiasi altra nazione pur di non perpetrare la vergogna di ospitarne uno così male organizzato.
Proprio l’ingresso in top 10 di Alexander Zverev – non si vedeva un ventenne così in alto dall’esuberente del Potro 2008, numero 9 a fine stagione – coincide curiosamente con il giorno del compleanno di Novak Djokovic. I trent’anni compiuti dal serbo certificano la scomparsa di under 30 dalle prime cinque posizioni del ranking: 30 primavere Murray e Djokovic, 32 Wawrinka, 30 Nadal, 35 Federer. Pare non sia mai accaduto nella storia del tennis. In pratica la top 10 ATP, questo serpentone così ambito e idealizzato da chi lo insegue, mentre in coda prova a rinnovarsi in testa riafferma tutta la sua antica staticità.
Sascha però non ci sta. Già dotato di una praticità che quasi intimorisce, è il primo da diverso tempo a questa parte ad aver diffuso la sensazione che il rinnovamento si possa materializzare senza attendere che abdichino gli attuali padroni del circuito. Negli ultimi anni ci si era sempre espressi in questi termini. “In attesa del calo di Nadal“, prima, “aspettando che si concluda il dominio di Djokovic“, poi, “non prima che si consumi la leadership di Murray“, infine. Saranno state le promesse disattese dalla “Lost generation” (Nishikori, Dimitrov, Raonic) ma ci eravamo convinti che senza un aiutino dall’alto, beh, le gerarchie sarebbero rimaste immutabili. E il prepotente ritorno del duo Federer-Nadal nella prima metà di stagione non aveva fatto altro che corroborare questa tesi.
Poi, timidamente, aveva alzato il dito Kyrgios. Devastante a Indian Wells prima di mancare l’appuntamento con Federer (ritiro pre-incontro, ma lì Roger ancora giocava sulla Luna) e ritrovarselo di fronte in semifinale a Miami, dove stringi stringi era 5-5 al tie-break del terzo set. Quindi Thiem, finora protagonista in tutti i tornei sul rosso ma incapace di piazzare la zampata da 1000 punti. Impresa invece riuscita a Zverev al primo tentativo. Persino Djokovic, Nadal e Federer avevano dovuto perdere una finale prima di aggiudicarsi un “Mille“. E invece Nishikori, Dimitrov e Raonic ancora aspettano. Il tedesco non ha dovuto affrontare un tabellone irresistibile? Vero. Ma ne abbiamo visti altri di Masters 1000 in cui i big, pur giocando a singhiozzo, non si erano potuti esimere dal vincere per mancanza di validi contendenti. Zverev invece lo è stato.
Quindi se la domanda è “Zverev ha soltanto approfittato di un torneo in cui il livello di tennis è stato modesto?” la risposta probabilmente è no. Non ha vinto l’edizione più sfolgorante degli Internazionali d’Italia eppure non ha fallito dove altri prima di lui, per inesperienza o mancanza di mezzi, erano caduti. Zverev per esempio non sa (ancora?) giocare le volée. Eppure in finale quasi non ce ne siamo accorti perché ha fatto in modo di non averne bisogno. Dominando il resto della faccenda tennistica.
I top sono e rimangono top, c’è un motivo se li chiamiamo così. Per mantenere la leadership si sono “limitati” a marciare inesorabili su una strada lastricata di trofei, senza che mai nessuno dei nuovi virgulti riuscisse e instaurare una vera competizione generazionale. Tanto merito loro quanto demerito di chi inseguiva, se di demerito si può parlare quando banalmente non si riesce a stare al passo di gente a cui i libri di tennis – ammesso non scompaiano prima – dedicheranno pagine anche fra 50 anni. C’era solo da attendere che arrivassero “quelli giusti“. Nel tennis tutto è possibile, ma è difficile immaginare i prossimi 10 anni di tennis maschile senza Zverev tra i protagonisti. Gli altri? Quelli che dovevano arrivare ma ancora non ce l’hanno fatta? Che sfruttino il pungolo del tedesco, capace di aprire una prima breccia nel regno senza tempo dei vecchi cavalieri del palio a nome ATP. Thiem, promessa né nuova né troppo vecchia, speriamo non si perda nel decidere da quale parte stare.