Erano altri tempi.
Erano tempi in cui l’erba del vicino (Wimbledon) non era più verde e nemmeno più lenta. Era uguale.
Siamo al Queen’s Club e sono trascorsi quasi 111 anni da quando, il 19 maggio del 1887, è stato inaugurato il primo campo da tennis in erba nel complesso sportivo collocato in Palliser Road, a due passi da Earls Court e dalla stazione della metro di West Kensington, che però a quel tempo ancora non esisteva. Denominato così in onore della regina Vittoria, il Queen’s avrà una rapida espansione e in diciotto mesi appena verrà edificata la palazzina sede del club, disegnata dall’architetto William Marshall, che un decennio addietro aveva perso contro Spencer Gore la finale dell’edizione inaugurale dei Championships.
In principio il tennis non è certo la più importante tra le discipline sportive praticate dentro i recinti di Palliser Road. Qui, nei tardi Anni Venti, atleti, rugbisti e calciatori dei due college più famosi d’Inghilterra si sfideranno nell’Oxbridge, ovvero Oxford contro Cambridge. Tuttavia, nel 1890 i London Championships trovano dimora al Queen’s e da lì non si sposteranno più. Il primo non inglese a vincere il torneo sarà lo statunitense Holcombe Ward nel 1905 e ben presto l’albo d’oro si arricchirà di nomi prestigiosi che a loro volta contribuiranno a rendere la manifestazione sempre più importante. Wilding, Tilden, Budge, il barone Von Cramm prima della Seconda Guerra, poi tutti i grandi d’Australia fino al 1968 e anche oltre.
Nell’era open – e fino a quel fatidico ’98 – al Queen’s ci sarà spazio assai ridotto per gli “underdog”. Vincerlo da perfetti sconosciuti neanche parlarne (i nomi meno illustri sono Raul Ramirez, Wayne Ferreira e Todd Martin, tanto per immaginare gli altri), magari qualche finalista: l’inglese Paish nel ’72, lo statunitense Leif Shiras che strappa un set al McEnroe dell’orwelliano 1984, in cui il mancino di Wiesbaden tutto il mondo del tennis controllò tranne tre maledetti (per lui) set in quel del Roland Garros, Christo Van Rensburg nel 1989 (ma il sudafricano era un ottimo doppista) e infine Shuzo Matsuoka nel ’92, due mesi dopo essere diventato il primo giapponese nella storia capace di aggiudicarsi un titolo ATP (a Seoul).
Il campione in carica della 98esima edizione del Queen’s è Mark Philippoussis, la testa di serie numero 1 Pete Sampras. I primi otto entrano in gara al secondo turno ma tra loro c’è un intruso, ovvero il lucky-looser Brian MacPhie che ha rimpiazzato l’indisponibile Pioline. Tanto per tener fede al primo aggettivo, il californiano trova uno dopo l’altro nel main-draw due qualificati (il bielorusso Mirnyi e lo svizzero Heuberger) ma con questi cambia il verbo al participio presente e diventa vincente, approdando ai quarti senza perdere un set.
Che si tratta di un anno balordo, lo si capisce quasi subito. “Scud” Philippoussis, nono favorito, si fa sbattere fuori al debutto da uno dei pochi spagnoli che non disdegnano l’erba, Jordi Burillo, ma l’australiano non è l’unica testa di serie di seconda fascia a lasciarci le penne. Lo imitano infatti Todd Martin (11) e quello Stoltenberg (16) a cui lo scriba Gianni Clerici ha italianizzato il nome in Giasone, l’eroe greco che riuscì a rubare il vello d’oro. L’australiano sui prati ha più di una certezza ma viene fermato da un 25enne di doppio passaporto reduce dalle qualificazioni.
Ed è qui che nella nostra storia fa la sua prima apparizione il protagonista principale.
Laurence Tieleman ha il padre olandese e la mamma italiana ma è nato a Bruxelles, dove entrambi i genitori lavorano negli uffici del Mercato Comune Europeo. Ben presto il ragazzo scopre la vocazione per il tennis e non si accontenta di giocarlo nei club della sua città; vuole impararlo altrove, negli Stati Uniti, da Bollettieri. Mamma Mirella e papà Henri barattano la promessa che il figlio concluderà gli studi finanziandone il sogno alla prestigiosa accademia di Bradenton e dal 1990 il non ancora diciottenne Laurence diviene cittadino del mondo.
Tieleman dimostra ben presto di sapersi adattare a qualsiasi situazione e si fa le ossa nel circuito satellite: dall’India alle Filippine, dai Caraibi al Canada, dalla Malaysia al Messico. Bella vita, eh? Beh, non proprio. Occorrono spirito di sacrificio e tanta passione (oltre ai soldi di chi lo sostiene, non dimentichiamolo mai) per scendere in campo nelle condizioni più disparate e digerire i risultati negativi, inizialmente assai maggiori delle soddisfazioni.
Dopo oltre un anno di bocconi amari, nel dicembre del 1991 arrivano finalmente i primi piccoli trofei, in Bangladesh. Così, da n°334 del ranking ATP, qualche settimana più tardi tenta le qualificazioni agli Australian Open, dove però viene bocciato subito dal keniota Paul Wekesa. Ancora privo di una precisa identità tennistica, Laurence fa collezione di titoli in doppio insieme a Minhea Nastase, il nipote di Ilie, ma in singolare non arriva mai il decollo.
È solo questione di pazienza e perseveranza. La semifinale al Challenger di Punta del Este (ottenuta a spese di Alberto Berasategui) gli vale l’ingresso nei primi 200 del mondo; è l’8 febbraio 1993 e il futuro sembra sorridere a Laurence. Meno di cinque mesi dopo, al Queen’s (guarda un po’…), gioca e vince il suo primo incontro ufficiale nel circuito maggiore imponendosi a Sandon Stolle e di lì a una settimana – affidandosi al suo gioco “tutto tagli e attacchi alla baionetta” come ebbe a dire sempre lo scriba nel ritrarre l’italo-belga sulle colonne di Repubblica – entra nel tabellone principale di Wimbledon passando per le forche caudine di Roheampton, supera due turni e strappa un set pure al suo mezzo connazionale Richard Krajicek.
I dodici mesi che riportano Tieleman a Wimbledon sono un mezzo calvario durante il quale perde oltre 200 posizioni nel ranking e ripiomba ben oltre la trecentesima. Eppure, essere stato ad un passo (match-point) dall’eliminare Kafelnikov a Church Road – 7-5, 6-7, 7-5, 6-7, 11-9 per il russo lo score – ha il potere di rinfrancare lo spirito del nostro uomo che si rituffa con rinnovata convinzione nei challenger, ne vince un paio sul duro e riprende la sua risalita da salmone contro corrente verso posizioni di classifica che gli consentano di giocare i tornei ATP.
Ma la corrente è forte, a volte così forte da indurre ad abbandonarti tra le sue spire. Così torni a scendere, oltre il purgatorio e vicino all’inferno, tanto da chiederti chi e cosa te lo fa fare di penare in quel modo. Sono queste le condizioni in cui Laurence Tieleman affronta i preliminari alla novantottesima edizione del Queen’s: 254esima posizione nel ranking e la recente mancata qualificazione al challenger di Surbiton, battuto dal mancino Wayne Arthurs. I buoni risultati in doppio non valgono, anzi possono addirittura peggiorare il morale perché si sa che nel cimitero del doppio spesso vanno a finire i falliti del singolare. Che, noi lo sappiamo, non è proprio così ma tant’è, di questo magari parliamo un’altra volta.
Laurence supera le qualificazioni non senza affanni; dopo aver sconfitto il nipponico Suzuki in due partite, è costretto a rimontare un set sia al messicano Osorio che al sudafricano Nainkin. Il tutto per andare a sfidare, come detto, Jason Stoltenberg, sedicesima scelta del draw londinese e amante del verde anche quando è nella terra, se è vero che tre dei suoi quattro titoli in bacheca li ha vinti a Birmingham e Coral Springs (2), cioè sull’Har-Tru. Ma più di questi, vale la semifinale conquistata a Wimbledon nel 1996, fermato da Krajicek.
Al momento di scendere in campo, il record di Tieleman nei confronti dei Top-50 è di 1-4. L’unico che ha battuto è Stephane Simian, al secondo turno di Wimbledon ’93. Il vantaggio per Laurence è quello comune a tutti i qualificati, ovvero essere lì da qualche giorno ed aver saggiato le condizioni di palline e terreno. Ahimè, tutto questo spesso non basta e se poi ci si mette la pioggia, mai alleata dei più deboli su un campo di tennis (perché questi tutto desiderano tranne che essere interrotti mentre sono avanti nello score e stanno sorprendendo il favorito in giornata no), ecco diventare tutto più complicato. Invece Laurence fa l’esatto opposto: parte male, perde il primo set 6-3, soffre (e fa soffrire Jason) per tutto il secondo ma quando finalmente chiude il tie-break sette punti a cinque, dietro la curva trova una discesa inattesa che lo spedisce al secondo turno in un baleno (6-2).
Hai appena fatto qualcosa di insolito – ovvero eliminare il 38esimo giocatore della classifica mondiale – e subito ti tocca la prova del nove. L’avversario dei sedicesimi è infatti Sebastien Lareau, un doppista canadese di chiara fama che ha sfiorato il primo slam assoluto per la sua nazione perdendo la finale degli Australian Open ’96 insieme al fido compagno Alex O’Brien contro Edberg e Korda. Sempre con lo statunitense ha giocato la finale del Masters di Hartford lo stesso anno ma in singolare ci si ricorda di lui soprattutto per una vittoria su Stich (n°6 del mondo) nel tappeto sintetico di Anversa (1994) e per la recente vittoria al primo turno di Melbourne contro Magnus Norman (6-4, 6-7, 7-6, 6-7, 7-5).
Lareau è reduce da una vittoria analoga, in termini di punteggio, a quella di Tieleman. Il suo avversario è Lleyton Hewitt, un ragazzino australiano diventato famoso ad inizio stagione per essere diventato il vincitore di una prova del circuito maggiore (nella sua città, Adelaide, dove gli è stata concessa una wild-card) con la classifica più bassa di sempre: 550! Lleyton lo ha ripetutamente infilato in risposta e tenuto sulle spine ma alla fine Sebastien ha prevalso 3-6, 7-6, 6-4. Per un set, Tieleman non ci capisce nulla e Lareau lo liquida 6-0. Naturalmente, è una gara costante a chi prende per primo la rete; l’europeo cambia marcia dal secondo e prevale 6-1, 6-4.
Bene, cinque incontri consecutivi il buon Laurence non li vinceva dai tempi pioneristici dei satellite e la sua corsa è destinata a fermarsi negli ottavi, al cospetto di un altro canadese con passaporto britannico: Greg Rusedski. Il n°4 del mondo (e testa di serie n°2) ha debuttato lasciando un set al francese Golmard e l’inattesa sconfitta di Sampras contro Woodforde lo ha promosso a favorito del torneo. Il suo match però dura appena quattro giochi, fino a quando una brutta caduta gli procura una distorsione alla caviglia lo costringe al ritiro sul 2-2.
Tieleman ringrazia, approda ai quarti e si prepara ad affrontare un altro britannico – stavolta inglese doc – l’ultimo dei sei presenti ai nastri di partenza. “Gentleman” Tim Henman ha il tennis fluido e leggero per volare sull’erba e l’intera Albione freme per trovare finalmente l’erede di Fred Perry. Così questo 23enne di Oxford dall’aspetto imperturbabile si prende sulle strette spalle il peso di un popolo e cerca di colmare la lunga lacuna. In attesa di Wimbledon, già mettere in bacheca la coppa del Queen’s sarebbe un discreto affare, ancora di più adesso che i favoriti sono usciti tutti o quasi.
Henman vince il primo set 6-2 ma Laurence ha fatto della risalita una virtù e nel secondo resta in scia fino al tie-break non prima di aver salvato una palla-match sul 4-5. Il problema si ripropone anche nel gioco decisivo, in cui Henman ha una seconda opportunità sul 7-6; non la sfrutta e Tieleman infila tre punti consecutivi rinviando ogni decisione al terzo parziale. La nuvola su cui veleggia l’italo-belga non è passeggera, l’inglese perde intensità a fiducia e nel terzo Laurence chiude 6-4.
A questo punto tutto è possibile, anche che nessuna delle due teste di serie sopravvissute riescano a staccare il biglietto per la finale. Non ce la fa Woodforde, che rimedia cinque giochi nel derby australiano con Draper, e non ce la fa il più singolarista dei fratelli Black, Byron, a cui Diesel-Tieleman lascia il solito set di rodaggio per poi uscire alla distanza (3-6, 6-3, 6-2). Il caso vuole che sarà proprio lo Zimbabwe di Byron e Wayne Black l’avversario dell’Italia nei quarti di finale di Coppa Davis subito dopo Wimbledon ma nell’occasione si giocherà sulla terra rossa di Prato e i fratelli africani sul lento non hanno armi da contrapporre ai nostri Gaudenzi e Sanguinetti. Sui prati però Byron Black è un altro giocatore e, se nei quarti ha dovuto penare solo un set per regolare il lucky-looser MacPhie, al terzo turno aveva estromesso il n°4 del seeding Jonas Bjorkman.
Ormai, anche se stanco, Tieleman è in fiducia e vede l’opportunità di completare l’opera aggiudicandosi il titolo. Del resto, in una finale tra due giocatori posizionati oltre la centesima posizione mondiale, tutto può succedere. L’avversario è il mancino Scott Draper (n°108), un tipo a cui manca la necessaria potenza per occupare posizioni più interessanti nel ranking e che la vita ha sottoposto ad alcune terribili battaglie. Incapace di sopportare lo stress, qualche anno prima ha reagito malamente alla prematura notorietà successiva al titolo juniores di Wimbledon (in doppio) entrando nel vicolo cieco del disturbo ossessivo compulsivo che lo portava, ad esempio, a sentire la necessità di toccare taluni oggetti tre volte prima di sentirsi tranquillo.
Dopo quasi un anno, con l’aiuto di psicologi, Scott capisce che l’unico modo per non farsi sopraffare dalle sue manie è quello di tenerle sotto controllo. Ci riesce e, al contempo, riesce pure a riequilibrare il suo tennis. Risalita la china del circuito partendo dal nulla, Draper ha però avuto una stagione per niente positiva (4-9 il suo record prima del Queen’s) e ha perso cinquanta posizioni in sei mesi. In questo strano torneo il sorteggio e le vicende successive gli hanno propinato ben quattro derby su cinque match e lui li ha vinti tutti: Tebbutt, Rafter, Steven e Woodforde. L’altra vittima è lo statunitense Doug Flach, fratello del più celebre Ken.
La finale rispetta i canoni della superficie e si gioca praticamente su tre palle: quella con cui, rispondendo di dritto vincente, Draper mette a segno il mini-break decisivo nel tredicesimo gioco del primo set (lo vince 7-5 dopo che Tieleman gli ha annullato due set-point dal 3-6) e le due consecutive che mortificano Tieleman nel doppio fallo che gli costa il break in apertura di secondo parziale. Scott Draper non concede nemmeno una palla-break in tutto il match e alla fine solleva con pieno merito la coppa degli Stella Artois Championships. Sarà il suo unico titolo in carriera e l’anno dopo dovrà affrontare una nuova tragedia, ovvero la scomparsa della moglie Kelly che è già malata quando lui vince al Queen’s.
Tieleman invece si consola con la finale, anche se questa è un punto di arrivo più che di partenza. Costretto a saltare Wimbledon, Laurence riceve una wild-card per Newport dove raggiunge la semifinale ma l’erba è finita e il cemento americano porta in dote solo sconfitte. Tieleman arriverà al suo best-ranking il 26 aprile 1999 (n°76) e complessivamente spalmerà in tre differenti periodi le sue 48 settimane di permanenza nei primi 100 del mondo. Sia pur senza grande continuità, di tanto in tanto meriterà gli onori della cronaca. Sempre nel ’99 debutterà in nazionale al Patinoires du Littoral di Neuchatel perdendo – insieme a Pescosolido – il doppio contro Manta e Rosset, impegnerà Becker in due tie-break nei quarti a Hong Kong, tornerà in semifinale a Newport e sfiorerà la seconda settimana agli US Open, battuto 7-6 al quinto al terzo turno da Vince Spadea. Nel 2000 sfiorerà l’impresa a Melbourne contro Ferrero (altri cinque set), batterà Courier e Roddick ma ben presto scivolerà in classifica e non si riprenderà più.
Con il senno di poi, la sua vittoria più importante al momento in cui avvenne non fece notizia. Sul sintetico del Challenger di Heilbronn, siamo a fine gennaio 1999, Tieleman batte 7-5 6-1 un qualificato, n°298 Atp: Roger Federer. Non è il primo italiano a riuscirci e non sarà l’ultimo, ma in quell’occasione il futuro re del mondo iniziò a mostrarsi per quello che sarebbe diventato e veniva da sei vittorie consecutive.
Erano altri tempi, dicevamo. Anche se per qualcuno il tempo sembra essersi fermato.