Federer e l’ottavo titolo: Wimbledon pregusta l’epilogo da leggenda (Gianni Clerici, La Repubblica)
Qualcosa di inatteso è accaduto a Wimbledon. Mentre gli statistici vanno cercando un tabellone simile, incontro il mio amico Vincent Cognet dell’Equipe che cosi mi apostrofa: «Il torneo è diventato l’anticamera di un medico, meglio di uno psichiatra». Anche i più esperti tra i bookmaker non si sarebbero infatti spinti a immaginare un tabellone che presentasse, in semifinale, dall’alto in basso, il numero 24, l’americano Sam Querrey che giocherà contro il 7, Marin Cilic, croato. Dal basso avremo Berdych, n. 11, contro l’unico atteso, il più che atteso Roger Federer, peraltro offerto a due e mezzo dagli allibratori, stupiti quanto lo scriba. Il mio collega francese non si aspettava, quanto me, che due delle partite di ieri finissero al pronto soccorso, quella di Murray, che ha avuto il coraggio di finirla, pur subendo un doppio 6-1 che dice tutto senza bisogno di diagnosi, e quella di Djokovic che con Berdych, il più noto dei perdenti contemporanei, aveva vinto ben 25 volte su ventisette, che scrivo in lettere perché quasi non riesco a crederci io stesso.
Sedevo l’altra sera a un tavolone del ristorante Cannizzaro, il nome di un antico immigrato italiano che fondò ai suoi tempi un hotel altritempi chiamato l’Hotel du Vin. Ero stato invitato, nella modesta qualità di uno che ha scritto, incidentalmente, il libro di tennis più tradotto nel mondo. Assieme a me c’erano ben sette giocatori che hanno vinto uno Slam, e che non cito, perché il mestiere non mi ha mai consentito di scrivere qualcosa senza informare che un dialogo finisce su un giornale. L’argomento generale era proprio Federer. Ci chiedevamo se il miglior Federer possibile fosse quello che ha vinto 18 Slam, oppure quello che, a 35, potrebbe vincere il diciannovesimo. Nessuno di noi aveva mai visto giocare Big Bill Tilden, quello che, vinto un Wimbledon, disse ai suoi contemporanei: ora, se volete battermi, venite pure in America. E, prima di ritornare vittorioso a Wimbledon 1930, vinse ben 7 campionati americani. Non era tra noi Rod Laver, che sarebbe stato interessante sentire, ma che avrebbe risposto che, tra il 1962 e il ’69, le date dei suoi due Grande Slam, avrebbe vinto di certo una decina o una ventina di titoli, o forse un terzo o un quarto Slam.
Tutto quanto ho ascoltato l’altra sera mi è venuto in mente mentre mi deliziavo, dal mio posto sul Centrale, nel vedere Roger che dominava, un anno dopo, il canadese Raonic, dal quale l’anno passato era stato battuto in semi, in cinque set. «Non posso» mi son detto in tutta la mia ammirazione, «avere un’opinione come quella che anche Laver ha taciuto. Se cioè Roger sia più forte di lui. Forse il più forte di tutti i tempi. E mi è venuta in mente qualcosa che, forse, potrei dire, o addirittura posso scrivere. È stato meglio Omero o Dante Alighieri?
Il match di Federer non ha ripetuto in nulla quello dell’anno passato. Il Raonic di quest’anno, arrivato in semi grazie al servizio, con il quale aveva vinto quattro volte 7-6, e altre quattro 7-5, è stato dominato da Sua Federarità, in svantaggio solo una volta, 0-3 nel tiebreak del terzo. Un Federer straordinario, a quel punto, ha deciso di mandare a casa i fortunati possessori del biglietto del Center Court, e ha lasciato soltanto un punticino al grande battitore, che oggi si è limitato a 9 aces, l’unico settore in cui non sia stato inferiore a Roger. In proposito, le quote dei bookmaker non sono ancora apparse, ma non immagino a quale livello minimo possano apparire quelle di Federer. Detto del Fenomeno, resta qualcosa da aggiungere a quanto mi ricorda un amico statistico, e cioè un successo di Berdych su Roger nei quarti del 2010, l’anno della vittoria di Nadal. Simile Federer aveva allora ventinove anni, l’età in cui un tennista inizia a pensare al ritiro.
Non so se un pensiero analogo sia mai passato per una mente occupatissima da pensieri quattro volte paterni, ed economici. Di fatto, ci voleva una immaginazione superiore al coraggio per pensare a un se stesso migliorabile sotto un aspetto che sarà si psicologico, ma rimane dipendente dal muscolo, dal corpo prima ancora che dalla psiche. Roger è riuscito a essere migliore del se stesso vincente di allora. Ha migliorato soprattutto la sua posizione, con il risultato di accorciare il proprio campo, e soprattutto ha migliorato il suo rovescio, del quale il suo povero allenatore australiano Peter Carter mi disse: «Diventerà un grande campione, se lo migliora». Ma erano i tempi del suo primo successo, il torneo di Milano (…)
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Querrey da favola, Murray da incubo: «Mai stato bene» (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Suonala ancora, Sam. Una volta c’era il campo due, il famigerato cimitero dei campioni, a garantire destini da tregenda ai più forti della compagnia. Da adesso, bisognerà evitare di incrociare Querrey sui prati più celebri del mondo. Dopo Djokovic dodici mesi fa, tocca a Murray: in due anni, il californiano tranquillo sottrae a Wimbledon la testa di serie numero uno, giustiziere con il sorriso dei guai di eroi ammaccati, nella testa e nel fisico. Ci ha messo 42 Slam, lo yankee, per raggiungere la prima semifinale Major, un record: ma stavolta a versare lacrime con lo sconfitto è l’orgoglio sanguinante di tutto il Regno.
La chiave che scardina le resistenze del campione in carica è il servizio, 27 ace e 1’84% di punti con la prima. Ma il re è nudo, e il bombardamento di Querrey smaschera una realtà che solo il grande cuore dell’idolo di casa aveva saputo nascondere fin qui: Muzza non sta bene, e di fronte a un avversario martellante l’anca destra, dolorante da troppo tempo, gli chiede il conto. Avanti di un set e un break, Murray si spegne progressivamente, e non soltanto per le qualità del boy di San Francisco: porterà dalla sua parte il terzo parziale con la forza di un immenso carattere, ma da quel momento sparirà dal campo. Fino alla verità rivelata: «Per tutto il torneo ho avuto problemi, l’unica cosa positiva era che mi consentivano comunque di giocare, per cui ci dovevo provare. Non sono andato lontano dal vincere in tre set, e ovviamente avrebbe cambiato tutto in prospettiva, ma lui è salito di livello. Sono orgoglioso di essere arrivato fin qui, però sono triste perché non doveva accadere a Wimbledon».
L’infortunio è remoto, non poteva essere risolto chiamando semplicemente un fisioterapista sul Centrale e tenderà a peggiorare a ogni partita che Andy caricherà sulla gamba. Dunque, è arrivato il momento delle decisioni: «Parlerò con la mia famiglia e con il team, cercherò la miglior soluzione medica. Gli Us Open sono tra sei settimane, io voglio tornare a competere per i traguardi più alti. Se aspetterò un paio di giorni? No, non c’è tempo da perdere».
L’atto di dolore di Murray, tuttavia, non oscura la nuova alba di Querrey, capace di vincere tre partite consecutive al quinto e primo americano in semifinale a Church Road dopo il Roddick dei 2009. Quel Roddick che, indirettamente, è stato una pietra di paragone ingombrante per tutta la prima parte della sua carriera, fin da quando, ventenne, Sam vinse il primo torneo a Las Vegas. In un paese storicamente abituato a dominare, ma poi scopertosi povero di talenti e quindi affamato di fenomeni, la precocità non lo ha aiutato. Soprannominato «Samurai» da bambino, professionista senza passare dall’università, Querrey nel 2011 è già numero 17 del mondo, perché il suo gioco non è soltanto servizio, ma anche buoni fondamentali a rimbalzo.
Però è un antieroe, non cerca le copertine, non ha neppure Twitter e passa perfino per un tipo naif, quando si distrugge il gomito destro allacciandosi una scarpa su un tavolino di vetro. E ci si mette pure il cuore, perché nel 2013 la separazione dalla fidanzata di lungo corso Emily lo devasta. Si ferma sei mesi, partecipa a un reality per trovare una nuova donzella e poi riparte. Oggi è felice, ha un’altra girlfriend e non intende fermarsi, perché non batti due volte il numero uno a Wimbledon se non senti di avere qualcosa in più: «Mi sono accorto che Andy si muoveva male (…)
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La caduta degli dei (Angelo Mancuso, Il Messaggero)
A Wimbledon dei Fab Four resta solo il Divin Federer e i suoi fedeli sono in estasi. Dopo Nadal, anche Murray e Djokovic hanno salutato il torneo dei tornei. Lo scozzese era a rischio per via dell’anca sinistra dolorante: in passato si era presentato sui prati di casa al top della condizione, invece quest’anno ha perso subito al Queen’s. Per la decima volta di fila è arrivato ai quarti, ma lì si è inchiodato. Fatali le bordate e i 27 ace di Sam Querrey, un gigante contro il quale aveva vinto 7 volte su 8, comprese due partite sull’erba. Il britannico dopo il terzo set ha smesso di muoversi: 3-6 6-4 6-7 (4) 6-1 6-1 per l’americano. «Avrei dovuto vincere in tre set, invece ho perso male il secondo in cui ero avanti di un break e ho consentito al mio avversario di allungare il match», ha ammesso Murray. «Il fastidio all’anca me lo trascino da sempre, ma quando ero più giovane recuperavo in fretta», ha aggiunto Andy, che ha compiuto 30 anni lo scorso maggio. Nei prossimi giorni affronterà il problema con il suo staff e i medici: probabile uno stop, ma si paventa la possibilità di un’operazione. Il popolo british si può consolare con la favola di Johanna Konta: se Murray ha interrotto un digiuno di 77 anni, lei potrebbe diventare la prima inglese a trionfare tra le donne 40 anni dopo Virginia Wade.
Tutto ciò non deve togliere i giusti meriti a Querrey, un ragazzone di San Francisco di 29 anni, alto quasi due metri, che più del surfista californiano ricorda il secchione sfigatello del college. Le vittorie contro i big, seppur non al top, devi saperle afferrare e negli ultimi due anni lo “Zio Sam” è diventato il giustiziere del n.1 e campione in carica dei Championships. Nel 2016 era toccato a Djokovic cadere sotto i suoi potenti colpi, ieri a Murray. E’ il primo statunitense in semifinale a Wimbledon dal 2009, quando Roddick giocò la finale. Domani lo attende un altro omone grande e grosso, Marin Cilic, che ha vinto la battaglia degli ace (33-17) contro il mancino Gilles Muller, pure lui potenziale cestista prestato al tennis: 3-6 7-6 (6) 7-5 5-7 6-1 per il croato.
«Quando affronti Federer puoi solo sperare che cominci a sbagliare». Parola di Milos Raonic, che si è inchinato a King Roger in tre set: 6-4 6-2 7-6 (4). Proprio il canadese 12 mesi fa aveva sbarrato allo svizzero la porta della finale: sembrava il tramonto di un’era. Era da domenica 29 gennaio 2017, quando il Divino ha capito di poter ancora vincere gli Slam (quel giorno ha alzato il trofeo a Melbourne, il 18esimo) che non aspettava altro che rimettere piede nel suo “giardino”, il Centre Court, dove insegue l’ottavo sigillo. Dove i fotografi fanno a gara per posizionarsi in prima fila inseguendo lo scatto da copertina. Basta guardare le gallerie delle agenzie o dei siti web: per tutti gli altri ci sono le consuete foto di gioco, tutte sim ili tra loro. Invece digitando la voce Federer salta sempre fuori qualcosa di particolare, gesti bianchi in tema di dress code capaci di catturare la fantasia. Come il tennis celestiale del 36enne Fenomeno.
Per lui era la centesima partita a Wimbledon: ne ha vinte 89 e ha collezionato la 12esima semifinale in 19 partecipazioni, la 42esima in totale nei Major in 70 presenze. Numeri mostruosi. Domani troverà il ceco Tomas Berdych e non Djokovic. C’era preoccupazione per il dolore al gomito destro che Nole si era fatto trattare un paio di volte nel precedente match contro Mannarino. Il serbo si è ritirato a inizio secondo set (…)
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Federer santo subito (Claudio Giua, repubblica.it)
Prima di ogni match un buon coach pone, instancabile, le stesse domande a sé e al proprio assistito: qual è il fondamentale meno sicuro dell’avversario? Ha un rovescio solo difensivo? Fatica a tenere in campo i passanti angolati che gli arrivano sul dritto? Oppure patisce le palle corte? Dalle risposte può dipendere l’andamento della partita. Ma non è sempre e solo questione di colpi sicuri o incerti – servizio, smash, dropshot, volée eccetera – nonostante Luca Bottazzi e Carlo Rossi scrivano in “Il codice del tennis. William Tatem Tilden: arte e scienza del gioco” (GueriniNext editore, 20 euro, 2015) che “è l’anello più debole di una catena a determinare la sua resistenza.
Così, nel tennis moderno, è il colpo più debole di un giocatore a determinare la sua forza. I tempi dei giocatori di un solo colpo sono tramontati per sempre”. Sono infatti parecchi i fattori che possono cambiare il corso di un confronto, e non tutti risultano individuabili in anticipo. L’imprevisto fa la differenza, com’è accaduto oggi in negativo ai due ultimi capifila della classifica mondiale. Prima, un deficit di mobilità ha ribaltato l’esito del match che sembrava nelle mani di Andy Murray, opposto a Sam Querrey nel quarto di finale più atteso dal pubblico di Wimbledon. Poi è toccato a Novak Djokovic, che s’è ritirato sul 6-7 0-2 a favore di Tomas Berdych dopo un’ora di sofferenza per l’infortunio all’avambraccio destro che s’era evidenziato ieri contro Adrian Mannarino. Mi sono reso conto nella zoppia del numero 1 ATP osservandolo deambulare faticosamente da fondo campo alla sua sedia al termine del vittorioso terzo set, dopo il tie break. Vedendolo, m’è venuto spontaneo immaginare che tra trent’anni, sessantenne, camminerà così, con la spalla destra più bassa della sinistra, lento e pesante. Sarà, allora, un perfetto baronetto dell’ex impero britannico come ce lo figuriamo noi del continente, un po’ invidiosi.
Adesso, però, Andy mastica amaro. Uscire così di scena nella Centre Court, dove ha vinto i Championships del 2013 e dell’anno scorso e le Olimpiadi del 2012, costituisce di sicuro lo smacco peggiore della sua stagione. Tutta colpa del riacutizzarsi dell’antico dolore all’anca: “Ho problemi al bacino da quand’ero piccolo”, aveva dichiarato alla vigilia dello Slam sull’erba. “Di recente l’anca era indolenzita e mi rendeva difficile i movimenti in campo”. Sembrava un problema risolto e invece oggi s’è riproposto dopo che il campione uscente aveva controllato il primo set in scioltezza (3-6), lasciato per merito di Querrey il secondo (6-4) e incamerato con crescenti difficolta il terzo (6-7). Negli ultimi due set, con Murray quasi immobile, ha maramaldeggiato (6-1 6-1) il trentenne californaino di San Francisco, ATP 28, che l’anno scorso aveva eliminato a Wimbledon Novak Djokovic, allora numero 1 ATP e vincitore dell’edizione 2015. Del quarto di finale tra il serbo e il ceco sul campo numero 1 c’è poco da scrivere. Semplicemente, Nole ha verificato per quattordici game la possibilità di essere competitivo nelle condizioni date, oggettivamente molto condizionanti, poi ha gettato la spugna. Per un guerriero come lui, ritirarsi vale come una doppia sconfitta.
Ammirando Roger Federer umiliare per un’ora Milos Raonic, dal quale era stato sconfitto proprio qui un anno fa, tutti i fortunati possessori di un biglietto della Centre Court hanno pensato all’unisono: è di nuovo il suo anno, finalmente. Un pensiero collettivo che ho sentito più forte dell’urlo dei duecentomila di Modena quando Vasco ha attaccato “Albachiara”, dieci giorni fa. Lo svizzero ha già alzato al cielo la coppa di Wimbledon sette volte, l’ultima nel 2012. Se gli riuscisse di ripetersi domenica, alla sua centoduesima partita sull’erba londinese, stabilirebbe un pacchetto di record che nessuno dei viventi nell’anno del Signore 2017 vedrà conseguire da altri in futuro. A impedirgli l’impresa potrebbero essere Tomas Berdych, suo avversario venerdì in semifinale, oppure, in finale, uno tra Sam Querrey e Marin Cilic, che ha eliminato Gilles Müller, il killer di Rafael Nadal. Oggettivamente, eventi entrambi improbabili. Oggi il canadese nato a Podgorica, 27 anni a dicembre, testa di serie numero 6, ha cominciato a giocare soltanto nel terzo set, dopo aver perso malamente il primo per 6-4 in 31 minuti e il secondo per 6-2 in 28. È riuscito a costringere Federer al tie break e perfino a far credere – avanti per 3-0 grazie a due minibreak – d’essere in grado di prendersi il set. Ma lo svizzero ha recuperato e chiuso (…)