L’ultimo giocatore ad essersi assiso sul trono di Wimbledon giocando nel modo in cui per oltre un secolo è quasi sempre stato vinto, ovvero attraverso la tattica del “serve & volley”, è stato Goran Ivanisevic nel 2001. Anche Bjorn Borg, il regolarista per antonomasia dell’epoca AN (ante-Nadal), per conquistare i suoi cinque titoli consecutivi ai Championships dal 1976 al 1980 dovette inventarsi attaccante, sia costruendosi un rudimentale ma efficace rovescio tagliato d’approccio, sia più semplicemente seguendo con regolarità a rete il proprio servizio. La sua straordinaria risposta al servizio faceva poi il resto. Dal 2002 però tutto cambia. Da quella data e sino al 2016 sul trono di Wimbledon si sono seduti ben cinque giocatori che non hanno nel serve & volley il proprio punto di forza: Federer (7 volte), Djokovic (3 volte), Nadal e Murray (2 volte), Hewitt (1 volta).
Federer e Hewitt sono giocatori che potremmo definire “universali”, in grado cioè di destreggiarsi molto bene in ogni parte del campo. Lo svizzero ha attitudini offensive più spiccate rispetto all’australiano e in questo scorcio finale della sua carriera carriera si sono ulteriormente accentuate. Ma non è un tennista assimilabile al suo idolo d’infanzia ed ex coach: Stefan Edberg, il più classico prototipo moderno del giocatore servizio e volée. Gli altri tre vincitori dei Championships hanno caratteristiche tecniche riconducibili, estremizzando il confronto, più all’austriaco Thomas Muster, oppure Sergi Bruguera che non a Stefan Edberg. “Mostro” Muster (copyright Gianni Clerici) ha la non invidiabile caratteristica di essere l’unico giocatore nella storia del tennis ad avere raggiunto la prima posizione nel ranking ATP e al contempo di non essere mai riuscito a vincere una sola partita nelle sue quattro partecipazioni a Wimbledon, torneo al quale, dal 1995 in avanti, si rifiutò sdegnosamente di partecipare.
Ma, a parte questo caso clamoroso e un po’ estremo, non possiamo certo dire che gli altri più illustri regolaristi della sua epoca se la passassero molto meglio. Il sopra citato Bruguera giunse una sola volta in carriera, nel 1994, agli ottavi del torneo. Nei tempi moderni e sino al 2002, l’unico giocatore in grado di trionfare a Londra senza un accettabile gioco d’attacco è stato Andre Agassi nel 1992. Ma Andre è già in sé stesso un’eccezione alla regola e con ogni probabilità non ha ancora capito bene neppure lui come sia riuscito a battere Ivanisevic in quella ormai remota finale. Cosa, quindi, ha fatto sì che a partire dall’edizione del 2002 si sia potuto assistere ad un così significativo cambiamento di scenario? Come è possibile che giocatori refrattari – indipendentemente dal fatto che se la cavino più o meno bene – al gioco d’attacco come, in ordine di refrattarietà, Djokovic, Murray e Nadal abbiano alzato il trofeo per ben sette volte complessivamente nelle ultime nove edizioni? La risposta è semplice: il manto erboso.
La prima modifica importante avvenne nel 1995. L’avvento dei superbattitori, favorito dall’evoluzione tecnologica dei materiali, aveva reso le partite delle specie di gare di tiro al piccione data la sostanziale impossibilità per il ribattitore di opporsi a proiettili di servizio che rimbalzavano in maniera irregolare. I vertici del tennis mondiale decisero quindi, a seguito di accurati studi, di modificare l’altezza dell’erba facendola portare da 6 a 8 millimetri, per garantire rimbalzi più controllabili della pallina. Questa innovazione non fu però sufficiente a rendere il gioco meno monotono. Venne deciso quindi di attaccare il problema alla radice nel vero senso della parola, ovvero cambiando l’erba. Sino al 2000 i campi di Wimbledon venivano preparati con un mix di erba costituita, grosso modo, al 70% dal loietto inglese e al 30% dalla festuca, che creava un manto soffice ma molto irregolare. A partire dal 2001 i campi furono preparati al 100% con il loietto inglese, sempre tagliato a 8 millimetri e innestato su un terreno appiattito da rulli più pesanti rispetto a quelli usati in passato.
La combinazione di queste due innovazioni ha reso i campi più uniformi e compatti, una specie di cemento verde, ragion per cui la pallina rimbalza più alta, più lenta e con maggiore regolarità. I tennisti hanno di conseguenza guadagnato qualche preziosa frazione di secondo tra il momento in cui la pallina rimbalza sul terreno e quello in cui la impattano con la racchetta, che consente loro di preparare i colpi con aperture più ampie e simili a quelle che utilizzano sulle altri superfici di gioco. Chiaramente tutto ciò va a deciso vantaggio dei giocatori da fondocampo, che non si trovano costretti, come nel passato, a snaturarsi per adattarsi ad un’erba che il grande Manolo Santana definì (sicuramente prima di trionfarvi nel 1966) “buona per pascolare le mucche”.
Se tali modifiche abbiano rappresentato un bene per il tennis oppure no è chiaramente questione soggettiva, ma è altamente improbabile che si torni al passato. Sicuramente hanno avuto il merito di allargare il ventaglio di potenziali vincitori e creato quindi maggior incertezza alla vigilia di ogni edizione. Ma altrettanto di sicuro ora sappiamo chi ringraziare per un incontro come quello del 2013 tra Murray e Djokovic in cui, se non fosse stato per il colore del campo, dal modo in cui i due campioni lo disputarono difficilmente si sarebbe riuscito a capire se si trattasse della finale di Wimbledon o di Parigi.