Abbiamo definito i nostri obiettivi.
Abbiamo definito il piano d’azione per raggiungerli.
Ci siamo allenati a puntino, la tabella di marcia della preparazione è stata rispettata perfettamente: fisicamente, tecnicamente e tatticamente siamo pronti. Entriamo in campo, comincia il match e tutto procede per il meglio. Quando qualcosa accade. Può essere una chiamata dubbia, un punto combattuto perso in malo modo oppure il pensiero di non riuscire concretizzare il vantaggio nel punteggio. Sta di fatto che d’improvviso tutto cambia: le emozioni che proviamo in relazione a quanto accaduto non ci consentono di continuare a giocare con la stessa qualità con cui stavamo giocando fino a pochissimi momenti prima. E la cosa diventa una spirale negativa: più pensiamo al fatto che a causa di quanto accaduto non riusciamo più a giocare come prima e peggio giochiamo.
Quanto appena descritto è un qualcosa con cui la stragrande maggioranza dei tennisti, a qualsiasi livello, si è confrontata. Il combattere con le proprie emozioni in campo, con il conseguente calo – in molti casi notevole e decisivo per le sorti del match – della propria performance in campo. Insomma, succede qualcosa, un evento esterno piuttosto che un pensiero che fa capolino nella nostra testa, ed ecco che le emozioni iniziano ad avere il sopravvento su di noi. Ne abbiamo avuto una testimonianza proprio domenica scorsa, durante la finale di Wimbledon, con le lacrime di Marin Cilic a metà del secondo set durante il cambio campo. Il dolore fisico provocato dalla vescica al piede, che lo limitava negli spostamenti e nella spinta di determinati colpi, unito a quello interiore derivante dalla frustrazione per non potersi giocare al meglio la partita che ogni tennista sogna di giocare, la finale di Wimbledon, forse anche la rabbia per l’ennesimo problema fisico in un momento topico della carriera: un insieme di emozioni che hanno avuto per qualche minuto il sopravvento. Il tennista croato non ce l’ha fatta a gestirle interiormente.
Quando questo accade, quando le emozioni ci sopraffanno, il risultato è che il nostro stato d’animo cambia. Purtroppo nei casi elencati e in altri simili cambia in peggio, passando ad una condizione di negatività che non ci permette di conseguenza di esprimerci al nostro meglio in campo. Come avrete notato abbiamo introdotto due termini, emozioni e stato d’animo. Talvolta vengono considerati sinonimi, in realtà si tratta di due cose molte ben distinte. Potremmo definire le emozioni come stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Si può dire che la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo in quelle situazioni in cui è necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, una reazione che non utilizza cioè i processi cognitivi e l’elaborazione conscia. Lo stato d’animo invece può essere definito come una condizione psichica in cui si trova una persona in una dato momento. Lo stato d’animo, come detto, è strettamente correlato alle emozioni e, di conseguenza, ai comportamenti che adottiamo.
Il fastidio per la chiamata dubbia, la rabbia per il punto perso, la paura di non riuscire a chiudere il match, queste sono tutte emozioni che se non gestite adeguatamente possono portare a cambiare il nostro stato d’animo e rischiano di farci buttare alle ortiche tutto il lavoro fatto per arrivare a quel punto. Iniziamo a cambiare la nostra consolidata tattica di gioco senza avere un piano alternativo in mente, non ci concentriamo più sulla palla quando la colpiamo, proviamo colpi che non fanno parte del nostro bagaglio tecnico consueto. Cambiamo il nostro comportamento, appunto. Quando questo accade, abbiamo due modi per agire sul nostro stato d’animo affinché esso torni funzionale al raggiungimento del nostro obiettivo. Innanzitutto, subito una pillola di coaching. In PNL si usa dire “Uccidi il mostro finché è piccolo”, ciò appena si verifica una situazione in cui si avverte uno stato d’animo negativo si deve intervenire, senza attendere che poi si ripresenti nuovamente, magari in situazione più delicate e più importanti per noi. Non dobbiamo rimandare. Quindi non lasciamo, ad esempio, che il fastidio per quel punto perso si insinui subdolamente dentro di noi: facciamo attenzione e interveniamo subito nella gestione del nostro stato d’animo. Come possiamo farlo? Come dicevamo, abbiamo due strumenti: il focus e la fisiologia.
Il focus mentale è ciò su cui poniamo l’attenzione. Semplificando, possiamo dire che c’è un meccanismo del nostro cervello, il SAR (Sistema attivante Reticolare) che ci permette di dare priorità ed attenzione maggiore alle cose su cui ci concentriamo. Una classica similitudine è quella dell’obiettivo fotografico: viene messo a fuoco una parte del tutto, il resto diventa sfuocato. Di conseguenza la nostra realtà soggettiva diventa quello su cui ci concentriamo, il resto sparisce. Se ci concentriamo su quanto di negativo è accaduto o sta accadendo ecco che questo meccanismo contribuisce a farci percepire tutta la nostra realtà come negativa. Ed il nostro stato d’animo ne subisce subito le conseguenze. E a seguire i nostri comportamenti. Fondamentale perciò imparare a spostare il focus mentale non appena ci accorgiamo che ci stiamo concentrando su qualcosa di negativo. Come farlo? Un mezzo fondamentale per lo spostamento del focus sono le domande. Invece di rimuginare sul punto sbagliato o rimanere attanagliati dalla paura di non riuscire a portare a casa il match, impariamo a farci delle domande che ci portano ad allargare la nostra visione d’insieme della situazione. Alcuni esempi: “Cosa devo fare adesso per vincere questo match?”, “Qual’è la riposta migliore a questa situazione?”. Queste sono domande che ci fanno focalizzare su altri aspetti, nello specifico ci portano a concentrarci sulle nostre risorse, sulle nostre capacità, al fine di trovare una risposta. A tale proposito un’altra pillola: le domande più “utili” per cambiare lo stato d’animo sono le domande “Cosa\Come”, mentre in genere sono da evitare le domande “Perché”, in quanto tendono a spostare il focus sul problema, cosa decisamente da non fare.
Per fisiologia, invece, in PNL si intende l’insieme dell’utilizzo del corpo e dei messaggi che invia all’esterno. Quando si parla di fisiologia depotenziante si intende una postura, un corpo che non aiuta certo a sentirsi forti, a tenere alta la stima di sé, ad alimentare la sicurezza interiore. Ad esempio, una classica fisiologia depotenziante è quella con le spalle curve, la respirazione superficiale, lo sguardo basso, l’espressione triste del viso, le braccia a penzoloni, le gambe asimmetriche…Tornando all’esempio di Cilic, avrete sicuramente impressa la sua immagine quando si è apprestato a servire dopo il cambio di campo e ritroverete molte delle caratteristiche appena elencate. Al contrario, una fisiologia potenziante è la seguente: spalle dritte, petto in fuori, sguardo dritto davanti a sé, espressione del viso serena e leggermente sorridente, gambe aperte alla larghezza delle spalle.
A tale proposito c’è un curioso aneddoto – che al contempo è anche la dimostrazione dell’importanza della fisiologia nella gestione dello stato d’animo – relativo a quando Agassi chiese al famoso coach americano Tony Robbins di aiutarlo a tornare ai vertici del tennis mondiale. Una delle prime cose che Robbins fece fu quella di mostrare al Kid di Las Vegas due video che lo ritraevano in campo, uno di quando era ai vertici del tennis mondiale, l’altro più recente di quando era già in crisi. La differenza era evidente. Nel primo caso Agassi era l’Agassi che tutti ricordiamo, quello che saltellava freneticamente sui piedi pronto a giocare. Nel secondo invece era praticamente immobile, con lo sguardo quasi disinteressato a quanto stava per accadere. Già solo dal confronto di questi due video era evidente come nel secondo caso il giocatore che entrava in campo, l’Agassi di quel periodo, era in uno stato d’animo tale che non poteva accedere a tutto il suo potenziale. Un altro assioma della PNL è che “Non ci sono persone senza risorse, ma ci sono stati d’animo senza risorse”. Dalla visione dei due video era chiaro il messaggio che Robbins voleva trasmettere ad Agassi. Nello stato d’animo in cui si trovava, non poteva accedere a tutte le sue risorse, a tutte le sue capacità. Pertanto, quando in campo ci troviamo in una di quelle situazioni che rischiano di farci scivolare in uno stato d’animo negativo possiamo sfruttare la fisiologia. Come quest’ultima infatti viene influenzata dallo stato d’animo, vale anche il contrario: intervenendo sulla nostra fisiologia riusciamo a modificare il nostro stato d’animo. Perciò in un momento critico del match non scuotiamo ed abbassiamo la testa, non incurviamo le spalle e non ci lamentiamo dell’accaduto, ma gestiamo la situazione: respiriamo profondamente, rilassiamo le spalle, raddrizziamo la schiena, allarghiamo il petto e guardiamo di fronte a noi. Anche se all’inizio, ovviamente, non ci verrà del tutto naturale, sforziamoci di farlo in ogni occasione e osserveremo come – sempre di più – ciò ci permetterà di evitare che la negatività si impossessi di noi e ci consentirà di essere di nuovo concentrati sul match e sul dare il nostro meglio. Un esempio? La postura di Novak Djokovic versione Robonole, quello del 2015 per intenderci, durante la risposta al servizio, un prototipo della fisiologia potenziante.
A partire da questi due concetti, focus e fisiologia, nel mental coaching ci sono diversi metodi che si utilizzano per consentire agli atleti di gestire il proprio stato d’animo. Ad esempio, in fase di preparazione si lavora per consentire all’atleta di selezionare e mantenere stati d’animo funzionali a sostenere una performance ottimale in campo. Ne parleremo nel prossimo articolo, nel frattempo l’invito è quello di sperimentare “sul campo” le potenzialità del focus mentale e della fisiologia nel consentirci di gestire al meglio emozioni, stato d’animo e comportamenti. Uno dei vantaggi del mental coaching nello sport è proprio quello di poter vedere praticamente in “tempo reale” gli effetti di quanto stiamo sperimentando su noi stessi. Come iniziare? Scendiamo in campo, teniamo la testa alta, respiriamo profondamente, raddrizziamo la schiena e… Buon lavoro!
Ilvio Vidovich è collaboratore dal 2014 di Ubitennis, per cui ha seguito da inviato tornei ATP e Coppa Davis. Personal coach certificato, ha conseguito un Master in Coaching, una specializzazione in Sport Coaching e tre livelli di specializzazione internazionale in NLP (Programmazione Neuro Linguistica), tra i quali quello di NLP Coach. Giornalista pubblicista, è anche istruttore FIT e PTR.