Non capita spesso di poter parlare con chi viene ufficialmente riconosciuto come uno dei migliori di sempre nel proprio lavoro. Tuttavia l’amicizia di lunga data che lega Ubitennis (ed il suo direttore Ubaldo Scanagatta) ed il neo-Hall of Famer Steve Flink ci ha dato la possibilità di ottenere un’intervista esclusiva con il “Rino Tommasi d’America”, colui che tutto il mondo tennistico a stelle e strisce considera come l’enciclopedia vivente del nostro sport, al pari del compianto Bud Collins.
Il giorno prima della cerimonia di introduzione siamo riusciti a ritagliare mezz’ora del suo tempo tra tutte le incombenze che un evento di questo tipo richiede, tra video, cene ufficiali e la “prova costume” per assicurarsi che il famoso blazer della Brooks Brothers con il logo della Hall of Fame sia della misura giusta.
Per la prima volta da quando lo conosciamo, Steve Flink non indossa la cravatta: “mi sono un po’ pentito di non aver indossato la cravatta oggi – confessa quando glielo facciamo notare – Sapevo che sarebbe stata una giornata molto calda, però ho appena dovuto fare un’intervista in video, e sarebbe stato più opportuno avere la cravatta”. Una volta in 40 anni, ti perdoniamo Steve. Fa caldo, ed è venerdì, facciamo finta che sia il “casual Friday”.
Come ci si sente a leggere “Steve Flink, Hall Of Famer”. Ti sei abituato a questa realtà?
Mi ci sto abituando poco a poco. A partire da novembre quando me l’hanno comunicato, passando per la cerimonia in Australia, quando sono stato presentato sulla Rod Laver Arena insieme con gli altri e per la consegna dell’anello a Guga Kuerten a Parigi, quando sono stato chiamato in campo. Ora che mentre parliamo mancano meno di 24 ore e l’emozione sta prendendo il sopravvento – ma si tratta di emozioni positive – sono molto orgoglioso di aver ricevuto il voto della Hall of Fame. Per essere ammessi bisogna ottenere più del 75% dei voti, e sono contento di aver superato questo test.
Sappiamo che Roddick ha creato qualche grattacapo all’organizzazione perché ha chiesto di avere biglietti per più di 50 persone, e Stan Smith era un po’ preoccupato di non riuscire ad accomodare tutti quanti. Anche tu hai portato con te un contingente così numeroso?
No, non arrivo a quella cifra, ma anche noi siamo in più di 30. Il fatto è che siccome io vivo a New York, che è soltanto a 3 ore di auto da qui, molti miei amici abitano qua vicino. Se questa cerimonia si tenesse in California, molti di loro probabilmente non si sobbarcherebbero cinque ore di volo, ma dal momento che abito relativamente vicino, e ci sono persone che conosco da una vita, sono contento che siano potuto venire per condividere con me quest’occasione così speciale.
Cominciamo dall’inizio: perché ti sei appassionato al tennis? Sappiamo che sei un grande appassionato di baseball, dei New York Yankees, ed il baseball è uno sport ad elevata densità di statistiche, che si sarebbe ben sposato con la tua memoria fotografica. Cosa ti ha fatto dire che il tennis era il tuo sport, la tua strada?
Avevo visto qualche incontro di tennis a partire dai 6 anni, ma a quasi 13 anni, nel 1965, mio padre che avevo visto giocare a tennis a livello di club mi portò a Wimbledon. Ricordo una partita tra Rafael Osuna, che aveva vinto i Campionati degli Stati Uniti [non ancora Open] nel 1963 ed il tedesco Ingo Buding, sul campo n.3, in una giornata nuvolosa: la partita non fu straordinaria, ma qualcosa dell’atmosfera di quel match mi catturò, e da quel momento in poi ho iniziato a leggere tutti i risultati dei tornei, al punto tale che nell’estate del 1969, quando avevo 17 anni, durante una vacanza con la famiglia nelle isole greche, visitammo 15 diverse isole in 23 giorni. Appena sbarcavamo su un’isola, la prima cosa che facevo era cercare un luogo in cui poter comprare l’Herald Tribune per conoscere i risultati tennistici: non potevo sopportare di non conoscere cosa stesse succedendo nelle settimane precedenti Forest Hills. Tutto nacque da quella partita a Wimbledon: da quel momento in poi iniziai a seguire il tennis con un’assiduità quasi religiosa.
Hai giocato a tennis a livello agonistico?
Sì, ho giocato alle scuole superiori, sono stato il n. 1 a Stetson University in Florida durante i miei anni del college, ma la priorità è sempre stata quella di osservare i grandi campioni. Ricordo nel 1966, quando a Forest Hills si giocarono la finale Laver e Rosewall: c’erano i soci del club che giocavano le loro partite sui campi laterali mentre questi due supercampioni stavano dando spettacolo sul centrale, dove c’erano almeno 5.000 posti vuoti. Per me era incomprensibile come qualcuno potesse decidere di ignorare due maestri che si stavano dando battaglia pochi metri più in là per giocare una partitella sociale, che avrebbero potuto giocare in qualunque altro momento.
Il momento che hai scelto come più significativo della tua carriera è stato l’8 settembre 1984, il SuperSaturday durato oltre 11 ore con due straordinarie semifinali del singolare maschile in cinque set ed una finale tra Chris e Martina in 3 set.
La collezione di campioni di quella giornata, e la qualità di partite che si sono succedute: prima la semifinale tra Cash e Lendl, con Lendl che salvò il match point con un lob liftato di diritto lungolinea, poi la finale tra Chris e Martina, con Chris che sembrava poter avere il sopravvento ma che poi venne raggiunta e superata da Martina, e infine Connors e McEnroe con una delle loro epiche sfide. Cosa si può volere di più da una giornata di tennis?
Ti manca il SuperSaturday?
Sì, confesso che mi manca. Ora che la ESPN trasmette gli Open il programma è cambiato ed è tutto diviso. Però mi manca una così lunga giornata con così tanto buon tennis. Ne abbiamo avuti parecchi di straordinari, come per esempio quello del 1995, con Sampras e Courier in apertura, seguiti da Graf-Seles per la finale femminile, ed Agassi-Becker in chiusura.
Il tuo lavoro di storico e di custode dei numeri del tennis è iniziato quando i computer ancora non esistevano e nulla di ciò che è possibile oggi dal punto di vista della potenza di calcolo degli elaboratori era nemmeno lontanamente immaginabile. Come è cambiato il tuo lavoro nel corso di questi anni pieni di evoluzione tecnologica?
L’evoluzione principale è stata l’introduzione dei computer e il passaggio dai record cartacei, creati anno dopo anno attraverso lo studio dei tabelloni o di numeri di archivio delle riviste come World Tennis. All’inizio ero uno dei pochi, insieme con Rino Tommasi, Ubaldo Scanagatta ed un paio di altri colleghi, a raccogliere i miei dati e aggiornarli progressivamente. Oggi il sito dell’ATP consente di avere a portata di mano informazioni che prima avrebbero richiesto un grande sforzo di ricerca. Il tipo di lavoro oggi è sicuramente diverso e forse meno divertente: all’inizio della mia carriera avevo l’impressione che ci fosse un input maggiore da parte dello “statistico”, dovuto al metodo utilizzato per raccogliere i dati.
Ti è capitato di correggere i dati dell’ATP?
Sì, è capitato diverse volte. Qualche volta era l’ATP a venire da me per chiedere conferme, gli esperti della Virginia Slims, il circuito femminile, chiesero la mia opinione ed i miei dati quando decisero di creare il loro database.
Spostiamoci ora ai giorni nostri, alle discussioni che si succedono senza sosta sullo stato attuale del tennis maschile. Pensi che stiamo vivendo la fine di un’era speciale, oppure si tratta solamente di un’altra fine di ciclo, con i “vecchi” campioni che stanno arrivando alla fine delle loro carriere ed i giovani a fatica cercano di farsi strada?
Credo che sia un’era molto speciale, perché non avremmo mai potuto prevedere che Roger Federer, 36 anni tra poco, avrebbe vinto quest’anno due titoli dello Slam e potrebbe tranquillamente finire la stagione al n.1 del ranking. Così come era difficile prevedere Nadal che risorge dopo due stagioni molto difficili per conquistare il suo decimo titolo al Roland Garros, tutto questo mentre Murray e Djokovic hanno continuato ad esprimersi a livelli di eccellenza, soprattutto Djokovic che ha dominato nelle ultime due stagioni. Siamo certamente in un momento speciale, anche perché le carriere si sono allungate: Edberg si è ritirato a 30 anni, Sampras riuscì a vincere l’ultimo US Open a 31 anni ma si fermò lì. Magari avrebbero potuto vincere di più se non si fossero fermati, ma probabilmente nella loro testa 30 anni era il limite per poter vincere ai massimi livelli. Lo stesso accadde per Becker, Laver a 31-32 anni non era più lo stesso giocatore. È davvero incredibile che questi grandi campioni riescano a vincere ben oltre i trent’anni quando nel tennis stiamo vedendo infortuni di ogni tipo minacciare la loro salute: dall’anca di Murray, al polso di Djokovic, alla schiena e al ginocchio di Federer. Il corpo viene sollecitato ad un tale livello che io definisco il tennis uno “sport di contatto”. Credo che quest’era nel tennis maschile sia certamente speciale, così come lo è stata quella degli anni ’90 con in grandi campioni americani Sampras, Agassi, Courier, Chang, che hanno avuto un grande impatto sullo sport, e come pure le prime stagioni del tennis Open, 1968-69, con Laver e Rosewall di ritorno dopo la parentesi professionistica.
Passiamo al tennis femminile: la situazione attuale vede il tennis maschile e femminile che si sono scambiati i ruoli, rispetto a quanto accadeva negli anni ’80-’90. A quel tempo c’erano alcune giocatrici che dominavano e che raramente perdevano nei primi turni degli Slam, mentre in campo maschile c’era molta più incertezza. Oggi invece è tutto capovolto: tra gli uomini c’è un ristretto gruppo di campioni che arriva sempre alla fine, mentre nel circuito femminile non ci sono dominatrici.
È certamente così. Il tennis femminile non aveva un numero sufficiente di atlete competitive, però in quegli anni regalava spesso grandi finali. Per esempio al Roland Garros ci furono le due magnifiche finali tra Chris e Martina nell’85 e nell’86, l’anno seguente ci fu Graf che sconfisse Martina. Nello stesso periodo le finali maschili vennero giocate per due volte da Lendl e Wilander, in un altro paio di occasioni abbiamo avuto finali dimenticabili. Ancora nel 1992 Courier sconfisse Korda in una brutta finale maschile, mentre tra le ragazze ci fu quella memorabile battaglia conclusa 10-8 al terzo set tra Seles e Graf. Quell’anno intervistai il direttore del torneo parigino che mi disse: “Ciò che importa al pubblico è la finale. Una grande finale rimane impressa nella memoria della gente molto a lungo”. Al momento la situazione nel tennis femminile è molto frustrante, perché non si sa chi riuscirà a confermare i propri successi uscendo dalla condizione di “vincitrice occasionale”. Jelena Ostapenko saprà diventare una campionessa vera? A Wimbledon ha giocato bene, dopo il successo a Parigi, ma è preoccupante vedere esempi come Kerber: due Slam nel 2016 e poi una totale crisi di fiducia quest’anno. Nel 2008, Jankovic arrivò al n.1 del mondo senza vincere uno Slam ma arrivando almeno nei quarti in 26 tornei consecutivi; nel 2009-10 Wozniacki compì un’impresa simile, arrivando in vetta con la costanza di risultati ma senza vincere Slam. È un peccato che ci siano questi problemi di continuità al vertice perché il livello globale del tennis femminile è molto più elevato rispetto ai decenni scorsi, ma ciò di cui il pubblico ha bisogno sono i grandi incontri nelle fasi decisive degli Slam, e questo manca da un po’. Mi auguro che la WTA trovi maggiore stabilità in vetta con alcune campionesse che possano dare seguito ai loro risultati, come Kerber ha saputo fare nel 2016.
L’ATP e la WTA non sono in grandi rapporti come organizzazioni. Secondo te questo può essere un problema nel lungo periodo oppure si tratta solo di sana competizione?
Sono un po’ preoccupato per la situazione attuale, perché si fatica a capire quali saranno gli sviluppi futuri. Se si vuole continuare ad avere tutti questi eventi combined, da Indian Wells a Miami per arrivare ovviamente a tutti gli Slam, sarebbe auspicabile una maggiore coesione da parte delle due organizzazioni. Spero che la situazione non degeneri più di quanto non sia già accaduto, ed alla fine dipenderà molto dalla leadership. Ci sono stati periodi in cui i due vertici erano più vicini di quanto non sono ora, molto più disposti a sedersi intorno ad un tavolo per aiutarsi reciprocamente; non vedo una cosa del genere accadere tanto presto al momento, ed è preoccupante.
Uno degli ultimi episodi di questa cosiddetta “faida” ha visto a Wimbledon una polemica montata dalla WTA a proposito della programmazione sui campi principali durante la prima settimana, che ha sempre visto due incontri maschili ed uno solo femminile disputarsi sui palcoscenici più importanti. Ritieni che questa sia una questione importante?
Credo si sia fatto parecchio rumore per nulla. Magari ci possono essere occasioni nelle quali è il circuito femminile ad avere due match e gli uomini solo uno, ma mi sembra che si sia montato un caso principalmente per motivi politici.
La programmazione, in fondo è dettata dallo “star power” dei protagonisti, e purtroppo per la WTA non ci sono molti sport che possano competere con l’ATP in quanto a “star power” al momento.
Assolutamente. Soprattutto se si considera che la WTA non può schierare le sue due punte di diamante da questo punto di vista, ovvero Serena Williams e Maria Sharapova.
Parliamo del tuo prossimo futuro: il tuo sito internet dice che stai lavorando ad un nuovo libro. Puoi darci qualche anticipazione?
Sarà una biografia di Pete Sampras, perché a mio parere è un personaggio troppo dimenticato tra i campioni di quest’epoca. Credo non sia giusto che un personaggio così importante scompaia nell’ombra di Federer, Nadal e Djokovic. Ho seguito la sua carriera molto da vicino come giornalista, mi sono immerso quasi totalmente in molte delle sue vittorie che credo di poter portare una nuova prospettiva. Sono profondamente convinto che l’uomo Pete Sampras sia molto più interessante di quanto non gli venga dato credito: molti lo credono una persona noiosa, ma se si riesce ad ottenere la sua fiducia, come penso di essere riuscito a fare nel corso degli anni, lo si può sentire esprimere le sue opinioni in maniera chiara ed articolata. Ha sempre avuto posizioni molto interessanti su vari argomenti, sapeva far valere le proprie idee, ma era spesso frenato dalla paura di essere danneggiato dalla stampa, di essere frainteso. Ancora oggi io sono convinto che Pete Sampras al meglio, su un campo in erba, sarebbe più forte di chiunque altro, compresi Federer, Nadal e Djokovic. Prima di tutto perché con il suo servizio potrebbe togliere il pallino dalle loro mani. Sarà un libro che scriverò con grande passione per la grande opinione che ho sempre avuto di lui. Anche perché ammiro come si sia sempre sottratto ai lustrini ed al glamour della vita dei tennisti di vertice: a lui interessava soltanto vincere, e secondo me avrebbe provato a vincere più Slam se avesse immaginato che Federer gli avrebbe soffiato il record di Slam e quello di titoli a Wimbledon. Sampras mi disse una volta che non si aspettava che Federer avrebbe vinto così tanto: penso che Roger arriverà sicuramente a 20 titoli, e se rimane in salute credo potrà superare quel numero di una o due unità. Non credo che il libro uscirà prima del 2019 o del 2020, ma è un progetto che sono pronto ad iniziare ed a cui sono sicuro lavorerò con grande piacere.