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D’Adamo M., Vagabondo per mestiere. Avventure di un coach alla ricerca del Sacro Tennis, (prefazione Panatta A.), Absolutely free, 2016, pp. 208.
L’appassionato di tennis si divide in due grosse categorie: chi ama solo i grandi eventi (e i grandi campioni) e chi ama il tennis e basta, con le sue storie minori, i dietro le quinte, i dettagli tecnici, i fallimenti e la meraviglia che suscita una pallina colpita bene, non importa dove. Se appartenete alla prima categoria potete tranquillamente non acquistare il libro in questione. Se invece appartenete alla seconda categoria il libro di D’Adamo è una piccola miniera, impreziosita da una scrittura confidenziale e divertita di chi come mestiere ha scelto di fare il vagabondo inseguendo una racchetta dando forma e disciplina ai sogni di ragazzi. Allenatore per vocazione (Direttore del Centro Tecnico del Foro Italico, Direttore Organizzativo del Centro Tecnico Federale di Riano Flaminio, responsabile under 18, selezionatore e capitano di numerose rappresentative nazionali, coach internazionale, formatore di giocatori di Coppa Davis e allenatore di tennisti in Giappone) e filosofo per attitudine, D’Adamo ci accompagna nel back stage del circuito maggiore, rendendoci partecipi di cosa si vede dalla sua finestra privilegiata.
Il romanzo di formazione della quasi ragazza prodigio Federica Bonsignori, con i suoi codini e le sue smorzate assassine che hanno fatto vibrare in più di un’occasione il Foro Italico, la telefonata “vieni a vedere questa ragazzina. Ha i piedi che fanno scintille” (era Steffi Graf), il duro lavoro per fare avanzare di trenta centimetri il palleggio di un campioncino, i profili di Nick Bolletieri e Newcombe, “il più forte quattordicenne del mondo” (Kei Nishikori) e poi aerei, ristoranti e dettagli tecnici a non finire. Il libro è davvero un rosario di passione ed episodi, ma per chi come me ha sempre avuto una passione incommensurabile per i campioni minori, quelli che sono stati a un passo da salire nell’Olimpo per inciampare rovinosamente davanti all’ingresso, c’è un capitolo che mi è sembrato lo scrigno del tesoro che da bambini si trova in certe soffitte polverose. Dentro c’è descritta la settimana magica di sua maestà Mosé Navarra, l’uomo che assieme a Gianluca Pozzi ha incarnato ai miei occhi il mancinismo più radicale e romantico. Quello di chi ha lottato contro un mondo ingiusto e nonostante la sconfitta lo ha lasciato più bello. Un equivalente tennistico di Dario Hubner con molta meno fortuna. Applausi ed erezioni dalla provincia rigorosamente “Just for one day”. Breve viaggio di andata nel cuore della Metropoli e biglietto di ritorno in cui c’è scritto PER SEMPRE. Per chi fosse troppo giovane per ricordarlo, Mosé Navarra era uno che a quindici anni giocava quasi come McEnroe e a trenta poco meglio di me.
Un predestinato alla bellezza e alla sconfitta. Mancino, bello, allegro di quelli che a rete si mangia la palla, che esplode fulmini in sospensione senza il bisogno di appoggi e che sembrava essere nato per giocare a tennis su erba. Quando l’ho visto giocare la prima volta mi sono detto se non vince Wimbledon non diventerò mai giornalista sportivo. Ho tenuto fede al giuramento. Mosé non solo non ha mai vinto Wimbledon ma non è mai nemmeno arrivato nel tabellone principale. Tranne una volta. La volta in questione è raccontata splendidamente da D’Adamo che è stato il suo allenatore e ci racconta quella settimana magica coi tempi di un appassionato documentario emotivo. Era il 1996. Mosé aveva 22 anni. Pochi ma già abbastanza per capire che il treno era passato. E invece in quell’estate in cui i Take That si sciolgono, Romano Prodi vince le elezioni e i Ramones annunciano il loro addio dalle scene, Mosé partecipa alle qualificazioni di Wimbledon e arriva dritto dritto nel tabellone principale. “Tutto qui?” avrà pensato mentre esplodeva servizi volé e anticipi pazzeschi che lo costringevano ad allungare la permanenza in un albergo scalcinato. Da lunedì si farà sul serio. Nel primo turno gli capita il ceco Rikl. Dopo il primo set di adattamento Mosé frusta un triplice 6-2 come fosse la cosa più naturale del mondo (mentre il lodato sempre sia lodato Gianluca Pozzi con tre set di palle senza peso arriva al secondo turno, stoppato poi da Rafter).
Nel secondo turno a Mosé capita capita Albert Costa, l’astro nascente del tennis spagnolo, un signore che vincerà Parigi e che aveva un rovescio a una mano che assomigliava a un capolavoro. Per chi fosse troppo giovane una specie di Thiem con l’espressione di Bartali. Se volete un paragone della situazione immaginatevi un Quinzi allegro con la sigaretta in bocca che passa tutte le quali di Wimbledon, supera il primo turno e incontra Thiem al secondo. Credo che il quinto set, prima di quel giorno, Mosé lo avesse visto solo in televisione. Lui era uno che non giocava, colpiva. E non puoi a quel livello colpire e pensare di vincere in tre contro un top 10 se non sei uno svizzero poliglotta. Lui colpiva e l’altro giocava. Lui colpiva e l’altro giocava. Arrivarono al quinto, quando le gambe sono pesanti e il rettangolo dietro la rete sembra un francobollo. Ma Mosé era uno di quei perdenti baciati da dio, anche se da un dio minore. A quel punto arrivano tutti, televisioni, presidenti federali, giornalisti sportivi, tifosi italiani in astinenza cronica che non vedevano una volé dai tempi di Panatta, le bariste di tutti i night club di Soho e dopo uno psicodramma fatto di lampi e depressioni arriva sulla racchetta di Mosé la pallina che ti può cambiare la vita.
Otto a sette al quinto. Vantaggio interno. Mach point. Un respiro, bum, servizio mancino che striscia come una biscia e via verso la rete come se lì ci fosse la salvezza. Il magico rovescio di Costa risponde una palla bassa e velenosa per chiunque ma che non può nulla contro l’allegra e incosciente volé perfetta di Mosé. Io crollo in ginocchio nel mio salotto di casa, D’Adamo, piange come un vitello e Mosé appena intercetta un microfono, bello come un dio, dichiara “farò come Mc vincerò Wimbledon partendo dalle qualificazioni”. In quel giorno benedetto arrivarono gli sponsor, i titoli sui giornali e i quindici minuti di celebrità che spettano a tutti nella vita. Mosé fu massacrato in tre set nella partita successiva da Stoltemberg, liberò l’albergo scalcinato e di lui si perdono rapidamente le tracce, tranne pochi sprazzi di cui uno in doppio in Davis. Leggo su Wikipedia che ha smesso di giocare a 30 anni, si è sposato con una modella e fa l’attore di fotoromanzi. Grazie Mosé McNavarra, grazie Gianluca Pozzi e grazie a D’Adamo per aver inseguito, plasmato e raccontato storie come questa.
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