Nell’articolo del mese scorso abbiamo visto come intervenire sullo stato d’animo per evitare che le emozioni che stiamo provando influiscano negativamente sulla prestazione sportiva. Il passaggio successivo è quello di “allenarsi” ad entrare in un determinato stato d’animo. Come infatti ci si allena per eseguire nel migliore dei modi un determinato gesto tecnico o uno schema tattico, per diventare più rapidi negli spostamenti in campo, cosi ci si allena per entrare e rimanere nello stato d’animo più funzionale alla performance sportiva. In questo ambito uno degli strumenti principali dello sport coaching è la routine. Avrete sicuramente notato che in tutti gli sport ci sono atleti che prima di iniziare la loro performance ripetono gli stessi movimenti o adottano i medesimi comportamenti. Nella maggior parte dei casi si tratta proprio di routine. Studiate, preparate ed allenate fino a trasformarle in automatismi che diventano parte integrante del comportamento dell’atleta prima o durante la gara.
La routine può essere definita come un insieme di gesti, immagini, suoni, parole e pensieri associato ad un particolare stato emozionale, da ripetersi ogni qualvolta è necessario. Doveroso fare subito una precisazione: la routine non ha nulla a che vedere con la scaramanzia, seppur in prima battuta possa sembrare ci siano punti di somiglianza. Una routine è stata costruita per portare l’atleta in un particolare stato psico-fisico, funzionale all’ottenimento di una performance massimale. Il gesto scaramantico invece è fatto per evitare che qualcosa vada storto. La routine è un qualcosa che punta a portarci ad esprimere il nostro massimo potenziale, quindi è basata sul presupposto che siamo noi a costruire la nostra performance ottimale, siamo noi a determinare come ci comporteremo in campo o sulla pista. La scaramanzia invece è legato all’esterno, alla sfortuna, implicitamente porta il messaggio che la nostra prestazione dipende da fattori esterni.
Attraverso la routine si posso raggiungere diversi scopi: focalizzare l’attenzione e la concentrazione, ridurre l’ansia e la preoccupazione, attivarsi psico-fisicamente per effettuare la migliore prestazione possibile. Le routine si basano principalmente sull’utilizzo della tecnica dell’ancoraggio. Senza entrare in eccessivi dettagli, possiamo definire l’ancoraggio come un processo di associazione di una sensazione fisica a uno stato emotivo. Esso viene utilizzato sfruttando uno stimolo sensoriale memorizzato (l’ancora, appunto, che può essere costituita da più elementi associati tra loro, come un gesto ed una parola) per portare ad un cambiamento nello stato d’animo. Applicare la tecnica dell’ancoraggio non è altro che utilizzare in maniera consapevole un qualcosa che facciamo in modo assolutamente naturale ed inconsapevole nella nostra vita. Il classico esempio al riguardo è quello della canzone che ascoltiamo e che ci riporta immediatamente alla mente le emozioni a cui l’avevamo associata in passato (il sentimento per una persona, la gioia di un determinato momento in cui l’abbiamo ascoltata): stiamo utilizzando un ancoraggio che abbiamo creato spontaneamente nel tempo.
Combinando l’ancoraggio con altre tecniche, come ad esempio la visualizzazione, il mental coach supporta l’atleta (o la squadra: creare delle routine che coinvolgono tutti i membri della squadra è funzionale anche al team building, alla creazione di uno spirito di squadra) nel definire diversi tipi di routine, finalizzate a scopi differenti e da utilizzare in situazioni diverse. E dipendenti, ovviamente, anche dal tipo di performance richiesto da un determinato sport. Saranno infatti necessariamente diverse le routine che andranno a sviluppare un pattinatore artistico che scende sul ghiaccio per il suo programma libero di 4 minuti e mezzo, un motociclista che sta per affrontare una gara in cui per una quarantina di minuti dovrà guidare una moto ad una media superiore ai 180 km/h, un calciatore che sta per entrare in campo per una partita di 90 minuti con un intervallo di quindici minuti tra i due tempi, un tennista che deve scendere in campo in un match al meglio dei cinque set sulla terra battuta e che potrebbe perciò durare anche quattro ore, ma con tantissime pause.
Parlando di tennis, ci soffermeremo innanzitutto sulla routine pre-partita. Spesso sottovalutata, e non solo a livello amatoriale. In molti casi infatti la pianificazione della routine pre-gara considera nei dettagli aspetti quali la qualità e la durata del riposo, l’alimentazione, la preparazione dell’attrezzatura ed infine il riscaldamento fisico. Ma non quello mentale. Invece accanto al riscaldamento fisico ci deve essere anche quello mentale, che consiste nell’eseguire una routine che richiama (attraverso l’utilizzo delle ancore) quell’insieme di pensieri ed emozioni sperimentati in occasione di una performance eccellente, in modo da portare il tennista al giusto livello di attivazione psico-fisica, pronto a scendere in campo nello stato d’animo più funzionale a replicare un simile livello di performance. La routine verrà ovviamente creata in base alle necessità ed alle caratteristiche personali dell’atleta nell’approccio alla gara. C’è, ad esempio, chi ha bisogno di una maggiore attivazione psico-fisica perché tende a scendere in campo un po’ troppo rilassato o a “carburare” lentamente all’inizio del match e quindi magari avrà bisogno che nella routine venga inserito l’ascolto di una playlist di canzoni funzionali a “dargli la carica”. Al contrario, c’è invece chi tende a sentire un po’ troppo la tensione prima della partita e di conseguenza avrà necessità di creare invece una routine in cui trova spazio anche una tecnica di rilassamento in modo da gestire situazioni ansiogene.
Chris Evert iniziava la sua preparazione mentale addirittura la sera prima: “Cominciavo a pensare ad un match importante la sera prima. Immaginavo i punti che avrei giocato il giorno dopo.” Chiaramente questo è un qualcosa fattibile e funzionale soprattutto per un giocatore professionista, per il quale vincere una determinata partita può significare tanto per la sua carriera. Basta pensare a chi ha l’occasione di disputare una finale di un torneo dello Slam: vincerla significa entrare nella storia di questo sport, perderla dover attendere un’altra chance, non così scontata per alcuni. Prendiamo ad esempio la finale del Roland Garros 1976, giocata da due tennisti che in quell’occasione disputarono la loro prima ed unica finale in un Major: Adriano Panatta e Harold Solomon. Vincendola il tennista romano è entrato nella storia del tennis, quello italiano in particolare. Anche per il fatto che dopo di lui nessun tennista azzurro in campo maschile è riuscito a ripetere l’impresa: di conseguenza il nome di Adriano Panatta continua ad essere famoso ancora oggi, quarantuno anni dopo quella vittoria. Il nome dello statunitense invece – uno che comunque è stato tra i primi cinque al mondo, ha fatto altre due semifinali Slam ed ha vinto più di venti tornei ATP – oggi è probabilmente noto solo agli appassionati più esperti (anche dal punto di vista anagrafico).
Ma – “pillola” di coaching per i lettori di Ubitennis che sono anche degli sportivi praticanti – sviluppare una routine pre-match è importante anche se non si è nei top 100 ATP o WTA. A quanti di noi è capitato di arrivare negli spogliatoi all’ultimo momento, cambiarsi in due minuti esatti che neanche Clark Kent nella cabina telefonica quando si trasforma in Superman e scendere in campo con la testa ancora sull’esame appena fatto, sulla riunione appena conclusa in ufficio, sulla discussione con il proprio compagno o compagna perché ci eravamo dimenticati di avvisare che quella sera il cinema saltava perché c’è la partita del torneo. E, di fatto, iniziare a concentraci veramente sulla partita, se ci va bene, dopo un paio di game (in genere persi). Dedicare un po’ di tempo a “staccare” da quanto accaduto prima e richiamare uno stato d’animo funzionale a quello che stiamo per fare (scendere in campo a giocare una partita di tennis) è fondamentale a tutti i livelli. Creare una routine pre-gara in cui “lasciamo andare” quello che è accaduto fino a pochi minuti prima ed iniziamo ad orientare la nostra attenzione sul match che sta iniziando, ci porta a indirizzare tutte le nostre energie fisiche e mentali su quello che stiamo per fare. D’accordo, non sarà una finale Slam, e nella maggioranza dei casi vincerla o perderla non ci cambierà la vita. Ma ci siamo allenati, abbiamo investito un po’ del nostro tempo e anche un po’ del nostro denaro (anche considerando solo il costo dell’iscrizione: la serata al cinema ci costava più o meno uguale e per di più evitavamo la discussione) per essere lì a giocare quella partita. Allora, semplicemente, cerchiamo di fare il possibile per giocarla al meglio delle nostre possibilità, anche solo per uscire dal campo soddisfatti per come abbiamo giocato.
Passiamo adesso alle routine che si utilizzano durante il match. Ce ne sono diverse: quelle che si utilizzano tra un punto e l’altro del game, quando ci sono in tutto una di trentina di secondi a disposizione, e quelle che si utilizzano al cambio campo, quando invece la pausa dura un po’ di più, un minuto e mezzo. In uno sport come il tennis, la cui durata non è predefinita ed è pieno di pause, non è pensabile rimanere concentrati sul match ininterrottamente dal primo all’ultimo minuto. Soprattutto non è utile: si consumerebbero inutilmente tantissime energie nervose. Attraverso l’allenamento mentale e l’inserimento delle routine si impara invece a sfruttare il tempo delle pause per diversi scopi, tra i quali proprio quello di ricaricarsi dal punto di vista nervoso.
Una routine classica è quella che al termine di un punto riporta l’atleta al momento presente, al “qui e ora”, evitando che la mente rimanga a rimuginare sul colpo sbagliato o sull’occasione sprecata. In molti casi la ricerca ossessiva dell’asciugamano da parte dei professionisti – praticamente dopo ogni punto giocato – non è legata ad una sudorazione eccessiva che ha colpito tutti i migliori giocatori e le migliori giocatrici del circuito: il gesto di prendere l’asciugamano o il suo utilizzo per asciugarsi (in genere il viso o le braccia) è spesso parte integrante di una routine finalizzata a lasciar andare quanto accaduto nel punto precedente. E – altra piccola “pillola” di coaching – il lasciar andare non è solo riferito ad un qualcosa di negativo, ma anche a quanto di positivo è accaduto. Come non bisogna deprimersi per lo smash sbagliato a campo aperto che è costato il break, non bisogna neanche esaltarsi eccessivamente per gli ultimi tre bellissimi punti fatti in sequenza, perché se nel primo caso il rischio è quello di cadere nello sconforto e perdere motivazione, nel secondo è quello di “andare fuori giri” colti dall’entusiasmo, esagerare nella ricerca del colpo vincente sempre più bello e difficile e non rispettare così la tattica di gioco prevista.
Un’altra routine è quella che viene anche chiamata di “riattivazione”, che porta l’atleta nuovamente al giusto stato di attivazione psico-fisica. Si utilizza tra un punto e l’altro, dopo essere tornati al “qui e ora”, e al rientro sul terreno di gioco dopo la pausa del cambio campo. Il tempo del cambio campo infatti può essere sfruttato per “staccare” mentalmente e concedere un breve momento di relax alla mente e al corpo, in modo da ripartire avendo una sensazione di rinnovata energia psico-fisica. Lo si fa attraverso un altro tipo di routine, che spesso integra una tecnica di rilassamento e che appunto si può utilizzare durante il cambio campo.
C’è, infine, la routine che si utilizza prima di giocare il primo colpo del punto, quella che porta nuovamente il giocatore ad essere nello stato psico-fisico ottimale per eseguire al meglio il gesto tecnico. In genere in questo caso di tratta di una sequenza personalizzata di elementi di mental coaching (come ad esempio ancoraggi ad immagini mentali, alla respirazione e/o al dialogo interno) che, una volta stabilita con l’atleta e da lui approvata, viene ripetuta ogni volta che si effettua quel determinato gesto tecnico. Probabilmente a molti verranno subito in mente due esempi relativi alla preparazione al servizio di due fuoriclasse del tennis maschile: la sequenza di gesti di Rafa Nadal ed il numero di palleggi di Novak Djokovic. Una routine di questo tipo viene sviluppata integrandola nella routine del gesto tecnico del tennista: i gesti che l’atleta già compie vengono cioè integrati con una sequenza che diventerà col tempo perfettamente automatizzata e parte integrante del gesto tecnico, con l’obiettivo di portare al giocatore diversi benefici, quali ad esempio la gestione dell’attivazione psico-fisica, l’eliminazione di pensieri distraenti, un migliore controllo ed esecuzione del gesto tecnico. Perfettamente automatizzata, abbiamo detto: da qui si capisce perché i due campioni di cui sopra ogni volta che la loro routine al servizio viene interrotta per qualche motivo la riprendono dall’inizio, anche a costo di rischiare il warning.
In conclusione, anche se probabilmente molti lettori lo avranno già dedotto da quanto abbiamo scritto, è importante specificare una cosa: la routine è qualcosa di personale. Non c’è una routine che vada bene per tutti e nessuno può suggerire o consigliare la routine ideale. Il lavoro che l’atleta fa con il mental coach è proprio quello di diventare consapevole dei propri stati d’animo, di cosa li genera e di conseguenza sviluppare delle routine che siano efficaci nel gestirli in modo da consentirgli l’attivazione ottimale delle proprie risorse emotive e cognitive al fine del raggiungimento della miglior performance possibile.
Come sempre, l’invito è quello di provare. Magari la prossima volta che ci vengono i sudori freddi perché la maglietta talismano con cui abbiamo vinto gli ultimi tre match è ancora nel cestone della biancheria sporca e dobbiamo scendere in campo tra meno di due ore, proviamo ad associare all’unica maglietta rimasta in armadio le stesse sensazioni che proviamo quando indossiamo quell’altra, quella che nella nostra mente ci sta rendendo invincibili. E andiamo così a creare un’ancora tra il gesto dell’indossare la maglietta da tennis e le sensazioni che sentiamo più funzionali per permetterci di scendere in campo al nostro massimo. Possono essere, ad esempio, sensazioni di fiducia, forza, sicurezza: qui ognuno di noi – lo abbiamo appena detto, la routine è strettamente personale – inserirà le risorse interiori di cui sente maggiormente la necessità in quella situazione.
Nello sport coaching si usa spesso una frase, attribuita al leggendario coach di football americano a livello universitario Paul “Bear” Bryant, che ben sottolinea l’importanza dell’allenamento e della necessità di curare tutti gli aspetti per arrivare ad eseguire la performance sportiva nelle migliori condizioni psico-fisiche possibili: “Ciò che conta non è la volontà di vincere, quella ce l’hanno tutti. Ciò che conta è la volontà di prepararsi a vincere.”
Ecco, le routine sono parte di questa preparazione.
Ilvio Vidovich è collaboratore dal 2014 di Ubitennis, per cui ha seguito da inviato tornei ATP e Coppa Davis. Personal coach certificato, ha conseguito un Master in Coaching, una specializzazione in Sport Coaching e tre livelli di specializzazione internazionale in NLP (Programmazione Neuro Linguistica), tra i quali quello di NLP Coach. Giornalista pubblicista, è anche istruttore FIT e PTR.