Sono tornate le americane e la Kanepi è resuscitata (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)
Non fanno il fracasso degli argentini, ma quando c’è da spingere le loro ragazze anche gli americani si danno da fare: battono le mani. Ora, però, se le spellano, dopo che quattro yankee sono ai quarti di finale: non accadeva dal 2002 (le due Williams, Capriati, Davenport e la naturalizzata Seles). L’ultima a raggiungere il drappello delle magnifiche otto è stata Madison Keys. Dopo una lotta con il coltello fra i denti con la n. 4 Elina Svitolina, l’americana è arrivata per la prima volta ai quarti degli Us Open (già semifinali Australian e quarti a Wimbledon nel 2015).
Però la darling di questo cemento è Coco Vandeweghe. Questione di certificato di nascita: New York, anche se poi è cresciuta in California. Ma nonno Ernie e zio Kiki avevano giocato per i Knicks (Nba) ai tempi d’oro. «Spero di essere considerata presto la miglior atleta della famiglia», ha scherzato. Per andare avanti se la vedrà oggi contro la numero uno Karolina Pliskova, la finalista dell’edizione passata. Per Coco sarebbe il modo perfetto di arricchire quella che è stata la migliore stagione, dopo le semifinali degli Australian Open (persi con Venus) e i quarti a Wimbledon. La Stephens, fuori 11 mesi nel 2016 per un’operazione al piede destro, era strafelice di essere diventata la prima delle quattro «made in Usa» ai quarti con un cognome diverso da Williams dal 2009. E adesso è addirittura in semifinale. A fine luglio era precipitata a numero 957 e in poche settimane si è rialzata fino a 83 e ora rientrerà nelle top 50.
Ma è una ragazzona estone di 32 anni a impreziosire la storia del torneo. Perché anche Kaia Kanepi è una sorta di sopravvissuta. Si è presentata qui da qualificata con la zavorra del numero 418, dopo essere stata nelle top 20 e aver avuto quattro match-point nei quarti di Wimbledon 2010 con la Kvitova. Lunedì sera ha battuto la russa Kasatkina e ora torna a sognare: «E’ lo stesso di molti anni fa: volevo essere una grande giocatrice». Dopo una fascite plantare e il virus di Epstein-Barr, Kaia era rimasta fuori per gran parte-del 2016 e aveva iniziato a riflettere sul futuro. Racconta: «Lo scorso settembre a quest’ora portavo fuori il cane, cercando di capire che cosa fare della mia vita». Aggiunge: «Un anno fa non m’importava più di giocare a tennis, ho provato a condurre una vita normale». Mica tanto normale: vacanza alle Hawaii e pilota di rally sulle strade ghiacciate della Finlandia. E’ stato un trainer del lancio del disco a rimetterla in piedi (…)
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Che rimonta: Del Potro re di New York (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Lo considerano uno di loro, ma l’aria non ce l’ha. I veri newyorker sono aspri, senza riguardi, affamati di vita e di opportunità, sfrontati e brutali. Ecco, brutale lo è anche lui, ma solo nel tennis; per il resto, non ci siamo. Juan Martin del Potro ha l’aria svagata, parla poco, è timido come molti “ex bambini” troppo alti, o troppo grossi, e lui, figurarsi, ha persino il nome grande al punto da riempire il maxi schermo dello stadio, un nome a quattro ante. Ma piace. Quasi come Federer Al punto da mettere in seria difficoltà il pubblico, indeciso lunedì notte se seguire il più grande di sempre sull’Arthur Ashe, o migrare verso il piccolo Grand Stand, per assistere alla rimonta del più grosso di sempre. E che rimonta, gente! Questa sì da vero newyorker. Tale da spiegare il mistero del connubio fra una città vorticosa e il ragazzo che ha la siesta negli occhi, un placido manzo nella terra del cowboys metropolitani.
Una rimonta infinita, che ha travolto l’influenza e i trentotto di febbre che lo sfibravano dal giorno prima, che ha ribaltato i due set che con facilità estrema bomber Thiem gli aveva sfilato, e ha ridotto in polvere due match point nella quarta frazione. «Avevo bisogno di energia, me l’ha data il pubblico. Qui mi vogliono bene, mi sento a casa, è il mio torneo preferito». È lo Slam che ha vinto, il primo e il solo. Nel 2009, anche li rimontando. Ma dall’altra parte c’era Federer, avanti di un set e di un break nel secondo set «Una finale che mi sarebbe piaciuto rigiocare, ma che Delpo meritò di vincere, era il suo momento, alla fine di quell’anno sarebbe potuto essere il numero uno», Federer l’ha ricordata così.
E invece quel 2009 fu l’anno che avviò Delpo in uno dei più lunghi tunnel che un tennista abbia dovuto sopportare. Tre operazioni ai polsi, tre ricadute, tre lunghi periodi di sosta a partire dal 2010. L’anno scorso il rientro definitivo, il primo contatto con i più forti. La scoperta di riuscire a batterli ancora, tutti. Djokovic, Murray. Nadal. Wawrinka. E anche Thiem, che tutti dicono “il nuovo Del Potro”, perché colpisce altrettanto forte. «Ma Delpo è un campione, e ha molto da insegnarmi», dice l’austriaco. Poi azzarda: «La sua rimonta? E troppo se dico che ha impressionato anche me?». Quarti di finale, per la quinta volta in nove apparizioni. E di fronte, di nuovo Federer. «Ho sempre considerato Juan Martin uno che ha colpi tali da meritare di essere sempre fra i favoriti, in qualsiasi torneo», gli fa i complimenti Roger (…)
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Il grande cuore di Delpo (Claudio Giua, repubblica.it)
Di lì a cinque giorni, il mondo sarebbe cambiato per sempre a causa dell’evento più traumatico della storia americana, perfino più doloroso dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941. Il 6 settembre 2001 i newyorkesi avevano ancora altro a cui pensare e da fare: per esempio, seguire da vicino il quarto di finale di Andy Roddick, il ragazzo nato a Omaha e cresciuto in Florida che aveva compiuto 19 anni meno di una settimana prima. Raccontò Dan Rookewood sul Guardian, inviato a Flushing Meadows: “Dopo aver definito ‘un deficiente assoluto’ il giudice di sedia che aveva annullato la chiamata di un giudice di linea, Andy s’è deconcentrato fino a perdere il match con l’australiano Lleyton Hewitt per 6-7 6-3 6-4 3-6 6-4 . Sarà quest’ultimo ad affrontare in semifinale Yevgeny Kafelnikov”. Da allora nessuno altrettanto giovane è più arrivato tanto lontano nello Slam americano: fino a quando il russo Andrey Rublev conquista a 19 anni e 10 mesi di età il diritto a giocarsi mercoledì l’ingresso in semifinale. Dall’altra parte dal campo troverà Rafael Nadal, apparso fisicamente recuperato nel suo ottavo di finale.
Andrey Rublev non aveva nemmeno impugnato la sua prima racchettina quando le Twin Towers crollarono. Spero che lunedì, nel giorno dell’anniversario, trovi il tempo per andare a porgere omaggio alle vittime del terrorismo affacciandosi alle due grandi vasche nere del 9/11 Memorial a Manhattan. Sarebbe un bel gesto, un ringraziamento alla città che gli sta dando la fama globale.
A dire il vero, la sua non è una partita memorabile, perché l’avversario, David Goffin, testa di serie numero 9, scende in campo con evidenti difficoltà dovute ai postumi dell’infortunio alla caviglia destra subito al terzo turno del Roland Garros. Il ragazzo moscovita, forse intimorito dalla situazione e dal contesto del Louis Armstrong Stadium, sa approfittarne in parte, mettendoci due ore e cinque minuti per prendere (7-5 7-6 6-3) i tre set. Di tutt’altro segno la vittoria di Rafa con uno dei giocatori sulla carta più pericolosi del lotto, Alexandr Dolgopolov, 28 anni, ATP 64. Gli spettatori che affollano l’Arthur Ashe Stadium (è il Labour Day) s’innervosiscono quando si rendono conto che l’ucraino non sembra avere strumenti né tattiche per contenere lo spagnolo, a parte alcune improvvise bordate irraggiungibili per chiunque. Peraltro, tutti a New York vogliono la semifinale Nadal-Federer, dunque il tifo è univoco. Qualche scambio di qualità giusto per allenare il braccio, poi il maiorchino chiude sul 6-2 6-4 6-1.
Il match che merita la palma del più emozionante dell’intero torneo si gioca sull’hard del Grandstand, dove Juan Martin del Potro, annichilito da un attacco d’influenza, per onore di firma scende comunque in campo contro Dominic Thiem, il giocatore più in forma visto finora a New York. Per due set (1-6 2-6) l’argentino non riesce quasi a toccare palla. Quando la tocca, la mette sempre fuori. Le migliaia di connazionali venuti a seguirlo non smettono di urlare “Delpo, Delpo” ma sembra una supplica affinché non si ritiri (“…come ho pensato più volte di fare”, dirà dopo la partita).
Thiem, professionale e implacabile, sembra in grado di chiudere la pratica in un’ora e mezza. Invece, improvvisamente l’adrenalina e l’antinfiammatorio fornito dal medico del torneo fanno il miracolo. L’amatissimo gigante di Tandil comincia a piazzare ottimi servizi, potenti diritti lungolinea e attacchi a rete vincenti. L’austriaco va in confusione e lascia che il terzo set scivoli via fino al 6-1. Poi ritrova ritmo e sicurezza. La battaglia diventa durissima. Gli ultimi set sono una sorta di compendio del tennis migliore. Delpo va a spendere energie che non sapeva d’avere, Dominic risponde colpo su colpo. Dopo il 7-6 del quarto set, l’argentino – già trionfatore a Flushing Meadows nel 2009 – ottiene il decisivo break quand’è avanti per 5-4. Purtroppo, dopo una serie di scambi d’eccezionale intensità, l’ultimo punto gli arriva da un doppio fallo di Thiem. Tre ore e mezza che faranno innamorare del tennis chi, ancora bambino, deve decidere a quale sport dedicarsi. Non si resiste al cuore di Juan Martin e alla passione di Dominic (…)