Dimenticatevi tutto quello che avete visto nelle scorse due settimane. In quel 1988, il cuore del cuore del tennis statunitense batteva al ritmo sincopato e con la voce suadente di Satchmo, al secolo Louis Armstrong, cittadino onorario del mondo e di quella parte di New York. Dimenticate dunque l’attuale anonimo cantiere che diventerà il nuovo Louis Armstrong e immaginatevi un’epoca in cui gli svedesi, sì proprio gli svedesi dominavano il circuito maschile e completavano nientemeno che il Grande Slam.
Certo, forse ai più giovani stiamo chiedendo troppo perché in fondo loro uno svedese non l’hanno mai visto giocare nemmeno per sbaglio e sarà difficile convincerli che ci fu un lungo periodo in cui, con la racchetta in luogo delle navi rostrate, conquistarono tornei e alzarono insalatiere come solo i loro antenati vichinghi avevano saputo fare. L’ultimo di un certo spessore è stato il “cavernicolo” Robin Soderling, che un giorno di fine maggio del 2009 riuscì con la sua clava a fare ciò che nessuno riteneva umanamente possibile, ovvero battere Nadal al Roland Garros. Ma, come al solito, rischiamo che l’attenzione venga catturata da un rivolo bizzarro di quel ruscello che è la nostra storia e quindi di abbandonare il corso principale per raccontarne un’altra. E allora dimenticate la festa per i vent’anni di quella specie di mostro-mercato che è l’Arthur Ashe Stadium, oggi ancora più cacofonico quando piove o minaccia di farlo e viene chiuso il tetto, e immaginate – perché a questo punto sì che serve fantasia e non poca – di vedere un tennista che serve e si proietta sistematicamente a rete, prima o seconda che sia, con il solo scopo di non far rimbalzare più la palla nel suo campo e colpirla al volo.
Se state pensando a Stefan Edberg, siete più che perdonati. In fondo, proprio in quell’anno e in quel torneo, l’uomo dal rovescio d’oro ci arrivò da campione di Wimbledon e il suo modo di intendere il tennis, assai poco scandinavo, abbracciava in pieno la filosofia offensiva e talvolta spregiudicata propria di un altro popolo tennistico ormai in via di estinzione: quello australiano. Ed infatti, è di un australiano che oggi parleremo, all’epoca uno dei tanti, certo non il più famoso. Darren Cahill era arrivato agli US Open con le vele gonfie. Nativo di Adelaide, capitale della South Australia, il 22enne Darren aveva iniziato la stagione con il pettorale n°82 (quello del suo ranking ATP) ed era stato un esordio quanto mai infausto, battuto nella sua città dal tedesco Patrick Baur. Eppure, nella nazionalità del rivale di quella sfida c’era il presagio di ciò che sarebbe stata, nel bene e nel male, la stagione del leone che abbiamo scelto di celebrare questo mese. Tedeschi sarebbero stati, non a caso, i carneadi Andreas Lesch e Hans Schwaier, che gli avrebbero inflitto due cocenti sconfitte a Nizza e Monaco; e tedesco l’uomo che ne avrebbe accresciuto più che esponenzialmente la gloria futura e di cui vi racconteremo tra poco.
Ma citavamo il vento che aveva sospinto Darren verso New York. Un vento che soffia anche gelido nell’Oberland bernese, agli oltre mille metri di altitudine di Gstaad, paradiso invernale degli sciatori e dedito al tennis una settimana l’anno, in estate, quando dal 1915 si svolge un torneo che ha avuto e avrà ospiti e vincitori illustri. Certo, canguri che alzavano il trofeo lì se ne erano visti ancora e tutte celebrità: da Lew Hoad, il primo nel 1954, al quarantenne Ken Rosewall del 1975 e passando per Ashley Cooper, Rod Laver, Tony Roche e John Newcombe. Ma, come detto, la vena aurifera australiana si era andata via via esaurendo e gli ‘80, non fosse per quella sagoma di Pat Cash, campione a Wimbledon e due volte finalista a Melbourne, sarebbero stati anni di vacche magre. Magrissime. Ecco allora che anche un trofeo di seconda o terza fascia, qual era in fondo quello di Gstaad, poteva risollevare il morale a un’intera nazione. O quasi.
New York era, per Cahill, la 19esima tappa del suo tour stagionale e le ultime fermate erano state a Washington, Stratton Mountain e Cincinnati; nella capitale aveva perso nei quarti, nel Vermont in semifinale e in Ohio era stato sbattuto subito fuori dal connazionale Wally Masur. Un cammino tutto sommato in linea con il giocatore, anche in parte fortunato a trovarsi di fronte avversari per la metà posizionati ben oltre i primi 100 del mondo. Nei major, tuttavia, c’era sempre qualcuno che ti portava il conto e, per quelli come Darren, il più delle volte era assai salato. Come questa volta. Un primo turno alla portata e un secondo improponibile. Nella metà bassa del tabellone erano finiti sia Mats Wilander, che aveva vinto i primi due slam stagionali, che i finalisti di Wimbledon, ovvero Edberg e Becker. Ed era proprio “Bum bum” ad attenderlo al secondo turno, sempre se fosse riuscito ad imporsi allo statunitense Lawson Duncan.
Il debutto di Darren era stata una puntura di crotalo per il suo avversario, fulminea e quasi indolore, anche se il 6-0, 6-0, 6-2 palesava fin troppo le inusuali attitudini terricole di Duncan, che non giocava un match sul duro dallo scorso febbraio. Dal canto suo, Becker si era sbarazzato di un altro americano, tal Todd Nelson, soffrendo troppo nel terzo set, incamerato solo al tie-break. Non c’erano avvisaglie, il giovedì, di quello che sarebbe accaduto. Nel loro unico precedente, risalente a qualche settimana prima al Queen’s di Londra, il tedesco aveva vinto la semifinale in due set comodi e senza strappi (6-2, 6-4), almeno fino alla conferenza stampa. Lì, dopo che Cahill in precedenza aveva indicato in Cash il suo favorito per l’imminente Wimbledon, Becker – che evidentemente non l’aveva presa bene – aveva sminuito le qualità dell’avversario definendolo “non un gran giocatore” e “facile come un primo turno” la sfida appena terminata.
Acqua passata? Macché! Dopo aver perso la finale di Wimbledon giocata in due giorni con Edberg, Boris aveva incamerato otto vittorie consecutive tra Davis Cup, Indianapolis e il sopramenzionato primo turno con Nelson, che però gli aveva lasciato in eredità qualche fastidio ai piedi. Pur rassicurando la stampa il mercoledì sera sulla sua condizione (“Non puoi sempre dire la verità” fu il commento di Becker l’indomani), il tedesco era sceso in campo con una forte infiammazione al piede sinistro e Cahill ne aveva approfittato. “Quando ho capito che non stava bene”, dirà Darren alla stampa, “ho cercato di non pensarci troppo per non farmi condizionare dal pensiero. Volevo a tutti costi dimostrargli che sono un tennista migliore di quanto lui pensa e credo di esserci riuscito”. La netta vittoria su Becker aveva spalancato a Darren un’autostrada, proiettandolo direttamente nella seconda settimana grazie al forfait dell’argentino Marcelo Ingaramo, che ne aveva avuto abbastanza dei nove set disputati tra il connazionale De la Peña e il qualificato sudafricano Burrow. Come se non bastasse, negli ottavi Cahill non avrebbe trovato l’undicesima testa di serie Gilbert e nemmeno il suo giustiziere Jaime Yzaga, bensì un qualificato canadese n°151 del ranking.
Era dal 1974 che l’Australia non aveva tre suoi rappresentanti tra gli ultimi sedici degli US Open, la metà di quelli partiti. Insieme a Cahill, erano rimasti in vita John Frawley e Mark Woodforde; questi ultimi avevano segnato il loro torneo con successi prestigiosi nei confronti di mancini tanto geniali quanto non sempre affidabili (Henri Leconte e John McEnroe) ma le prospettive non erano buone in quanto Emilio Sanchez e Mats Wilander non sembravano alla loro portata. E infatti non avevano raccolto nemmeno un set. Invece Darren aveva proseguito il suo cammino immacolato asfissiando Martin Laurendeau con le continue discese a rete e battendolo 6-4, 6-4, 6-3. Nei quarti di finale, Cahill attendeva l’uomo di cui indossava la maglietta e replicava lo stile di gioco. L’arabesco nero composto dall’unione di una “s” e di una “e” riprodotto sul torace e sul dorso della sua Adidas non era altro infatti che il logo dedicato dalla ditta di abbigliamento bavarese a Stefan Edberg. Ma, in una fresca e ventosa serata newyorchese e al cospetto di 17.000 persone surriscaldate da ciò che stavano vedendo, il campione di Wimbledon era finito nella ragnatela di Aaron Krickstein, un ex bambino prodigio del tennis americano falcidiato dagli infortuni. Lo svedese e lo statunitense si erano rincorsi e superati per cinque estenuanti parziali e alla fine Aronne aveva ribadito la sua legge: sei vittorie e zero sconfitte sulla lunga distanza agli US Open (5-7, 7-6, 7-6, 4-6, 7-5).
Il pubblico del Louis Armstrong era pronto a trascinare il proprio beniamino in semifinale e Darren Cahill, un Edberg con meno talento, soprattutto dalla parte del rovescio, e non più certezze da quella del dritto, non poteva che rappresentare la ghiotta occasione per conquistare la prima semifinale slam in carriera. Ma l’australiano aveva sofferto meno dello svedese i frequenti lob di Krickstein e con lo smash si era tenuto in gara, nonostante una giornata non particolarmente felice al servizio. A rete si era decisa la partita e l’aveva vinta Darren, diventando così il primo semifinalista non testa di serie dal 1980. Per niente intimidito dal roboante e monumentale centrale, Cahill era rimasto nella sua bolla offensiva e aveva sempre comandato la contesa, impassibile anche quando Krickstein l’aveva trascinato sul suo terreno preferito, ovvero il quinto parziale. A quel punto le quotazioni di Darren erano crollate ma non la sua fiducia e alla fine la tristezza era stata tutta per il suo avversario. “Sono davvero amareggiato ma in fondo è giusto così” avrebbe detto Aaron ai cronisti.
Mats Wilander stava vivendo la sua stagione migliore e puntava a diventare il nuovo numero 1 a spese di Ivan Lendl. Ci sarebbe riuscito certamente qualora avesse vinto il torneo, che sarebbe stato il terzo slam nella stagione dopo Melbourne e Parigi. Nei major, solo a Wimbledon aveva dovuto arrendersi ed era successo nei quarti contro un grosso felino domestico che quando vedeva uno svedese diventava particolarmente vorace: “Gattone” Mecir. La sfida si sarebbe dovuta ripetere anche a Flushing Meadows non fosse altro che il cecoslovacco, talvolta assai pigro, si era fatto sorprendere dallo spagnolo Emilio Sanchez. Ben sapendo che da fondo campo non avrebbe potuto reggere il confronto con la certosina attitudine al palleggio – con conseguente sfinimento fisico e mentale dell’avversario – dello stratega scandinavo, Cahill aveva provato a prendere la rete seguendo ogni volta che poteva il rovescio in back ma il tutto gli aveva portato in dote una onesta difesa dell’onore e appena dieci giochi spalmati in tre set. Finiva dunque così, con un 6-4, 6-4, 6-2 che per Wilander sarebbe stato l’anticamera del paradiso, l’avventura di Darren agli US Open del 1988, ovvero il picco di una carriera in quel momento ancora acerba e che l’avrebbe portato a sfiorare i primi 20 del mondo nell’aprile dell’anno seguente e a vincere un solo altro titolo in singolare, a San Francisco, nel 1991.
Andò meglio in doppio, specialità in cui arrivò a giocare 20 finali nel circuito, perdendo quella degli Australian Open 1989 ma vincendone comunque ben 13. Appesa la racchetta al fatidico chiodo, Darren avrebbe intrapreso la carriera di coach e dispensato buoni consigli a due campioni che, con lui al fianco, sono diventati rispettivamente il più giovane e il più anziano n°1 del mondo: Lleyton Hewitt e Andre Agassi. Adesso ci sta provando anche con Simona Halep ma, ogni volta che è stata vicina al grande traguardo, la rumena si è bloccata. Ventinove anni dopo la sua piccola grande impresa, Darren avrebbe voluta ripeterla in panchina con Simona ma un sorteggio beffardo l’ha fatta finire tra le fauci della tigre siberiana e l’obiettivo è stato spostato più avanti. Ma solo spostato, sia chiaro.